Chi ha lanciato l’appello è serio e autorevole, e studia da anni la faccenda: lo psicoterapeuta dell’età evolutiva Alberto Pellai e il pedagogista Daniele Novara. Con loro ci sono decine di psicologi, psicologhe, professori, psicoterapeuti come Anna Oliverio Ferraris, Silvia Vegetti Finzi e Francesco Cappa. Poi ci sono attori, registi, conduttori televisivi e giornalisti famosi, perché per far parlare di certe iniziative servono nomi conosciuti al grande pubblico. L’idea è forte, ma poggia su basi scientifiche serie: serve una legge per impedire ai ragazzi di avere uno smartphone prima dei 14 anni e di aprire un proprio profilo social prima dei 16.
Quella dei firmatari, scrivono nell’appello, non è una «presa di posizione anti-tecnologica ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale». Prima dei 14-15 anni, dicono gli esperti, «il cervello emotivo dei minori è molto vulnerabile all’ingaggio dopaminergico dei social media e dei videogiochi». Da qui la richiesta «al governo italiano di impegnarsi per far sì che nessuno dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possa possedere uno smartphone personale prima dei 14 anni e che non si possa avere un profilo sui social media prima dei 16. Aiutiamo le nuove generazioni».
“La generazione ansiosa” e i danni degli smartphone
In questi giorni Rizzoli ha meritoriamente tradotto e pubblicato in Italia il saggio di Jonathan Haidt La generazione ansiosa: un volume che ogni genitore, insegnante ed educatore dovrebbe leggere prima di cedere e regalare ai propri figli uno smartphone, permettere ai propri studenti di usare un cellulare a scuola o accettare che bambini preadolescenti usino i social media perché «ormai lo fanno tutti» (Tempi ne aveva parlato qui quando uscì negli Stati Uniti).
Haidt è un autorevole psicologo americano che insegna alla New York University, e dopo anni di studio e analisi dei dati sulla salute mentale degli appartenenti alla cosiddetta Generazione Z (i nati dopo il 1995) è giunto alla conclusione che l’utilizzo di smartphone e social abbia causato danni gravissimi ai ragazzi, che sono sempre più depressi, ansiosi, distratti e dipendenti da una tecnologia che, usata senza controllo e adeguata educazione, li sta rendendo sempre più soli e impauriti dal confronto sociale.
Le quattro regole da seguire «per un’infanzia più sana nell’era digitale» di Haidt sono le stesse dell’appello di Pellai e Novara:
- niente smartphone prima delle superiori;
- niente social media prima dei sedici anni;
- niente cellulare a scuola;
- più gioco senza supervisione degli adulti e più indipendenza dei ragazzi.
L’idea che queste regole si possano applicare per legge dello Stato fa storcere il naso a qualcuno, ma la loro utilità è indiscutibile, come dice a Tempi Stefania Garassini, docente universitaria che da anni studia l’impatto della tecnologia sulla società ed è presidente di Aiart Milano, associazione nazionale che opera nella formazione a un uso consapevole dei media: «Sono molto favorevole ad aumentare l’età di accesso ai social media a 16 anni, e penso che bisognerebbe iniziare a provare a far rispettare le leggi che già ci sono, ma che nessuno rispetta».
La responsabilità delle piattaforme social
Molti bambini hanno profili Instagram e TikTok già a 9, 10 o 11 anni, quando cioè sarebbe vietato iscriversi su queste piattaforme. «Occorre che ci sia una reale verifica dell’età», dice, «e per farlo serve che si introduca una forma di responsabilità da parte delle piattaforme, che dovrebbero rendere il mondo dei social media più a misura di minori».
Questa petizione – che magari non porterà alla nascita di una legge – ha il merito di porre la questione nei suoi termini ultimativi, sottolinea Garassini, che proprio con Pellai è tra gli animatori di Patti digitali, una rete di associazioni che promuove la nascita e lo sviluppo di Patti di comunità per l’uso della tecnologia su tutto il territorio nazionale favorendo l’incontro tra genitori, insegnanti e altre figure educative con lo scopo di individuare semplici regole su cui sia possibile trovare un accordo, a cominciare dall’età giusta per cominciare a usare uno smartphone.
L’idea di una legge non è nuova, ricorda Garassini a Tempi, da qualche anno diverse forze politiche in Italia propongono una regolamentazione dell’uso dei device tecnologici e dei social per i minori, spesso in modo bipartisan e trasversale.
Il punto, ripete, è convincere le piattaforme a implementare una reale verifica dell’età: «Non possiamo lasciare fuori chi all’interno del mondo digitale fa profitto ma non si prende responsabilità, o rischiamo di mettere l’ennesimo limite che nessuno rispetterà. È a questo che bisogna dedicare energie, porre un limite certo non solo per l’iscrizione ai social ma anche per l’accesso a siti con contenuti inadatti ai minori: oggi un dodicenne può accedere tranquillamente a qualsiasi sito pornografico». E lo fa, come testimoniano i numeri citati da Haidt e come sanno tanti psicologi alle prese con bambini già dipendenti dal porno in giovanissima età.
«Che tipo di mondo digitale vogliamo offrire ai minori?»
«Questa petizione ha il merito di porre in modo chiaro la domanda: che tipo di mondo digitale vogliamo offrire ai minori? Qualcosa va fatto perché ormai i segnali arrivano da più parti, ci sono evidenze di situazioni di rischio per i ragazzi e per le ragazze sotto i 16 anni da due punti di vista: quello cognitivo – con difficoltà di concentrazione e di apprendimento, problemi nell’acquisizione del linguaggio e nella capacità di attenzione – e quello emotivo, che è soprattutto il tema del libro di Haidt, il quale dimostra come da quando sono entrati in gioco i social media, soprattutto Instagram dopo che è stato acquisito da Facebook nel 2012, si registra un aumento dei sintomi di ansia e depressione tra gli adolescenti», specialmente le ragazze. Un malessere la cui responsabilità non è solo ed esclusivamente imputabile a queste tecnologie e piattaforme, ma che queste tecnologie e piattaforme amplificano.
Un esempio che fa Garassini è proprio quello di Instagram: «Confronto e competizione con gli altri sono caratteristiche tipiche dell’adolescenza, ma su questo social sono esasperate, rese visibili a tutti, permanenti, quindi più difficili da affrontare. Già lo scorso anno il Surgeon General degli Stati Uniti aveva lanciato l’allarme, chiedendo – in attesa di dati definitivi e incontrovertibili – almeno l’applicazione di un principio di cautela sull’uso di questi strumenti da parte dei più giovani».
«Un bambino in camera con lo smartphone è come in piazza da solo»
Spesso non si parla dell’elefante nella stanza: i genitori che regalano gli smartphone ai propri figli convinti che in quanto “nativi digitali” sappiano come usarli, e che in questo modo saranno sempre raggiungibili e quindi più controllabili: «I genitori sono l’elemento cruciale insieme alle piattaforme. Nella maggior parte dei casi non si rendono conto del fatto che lasciare un ragazzino in camera sua con uno smartphone è come lasciarlo da solo in una piazza sconosciuta e pericolosa in cui può succedere di tutto. E questo va ribadito: Internet non è un ambiente per bambini, è fatto da adulti e per adulti. Un genitore deve saperlo e poi chiedersi: voglio che mio figlio frequenti da solo un mondo per adulti? Io penso di no, almeno fino a una certa età».
Dare fiducia ai genitori
D’altro canto, sottolinea Garassini, ai genitori bisognerebbe anche ridare un po’ di fiducia. Come? «Restituire loro l’idea per cui non è che dato che la tecnologia ha cambiato tutte le carte in tavola bisogna arrendersi». Adesso c’è la tecnologia per cui è normale non parlarsi più a cena, non guardare più insieme un film alla tv, ognuno ha uno smartphone e non valgono più le regole che valevano in un modo senza smartphone, dicono. «Io non credo che sia così. Il grande sforzo che dobbiamo fare è adattare le regole che abbiamo come famiglia (perché ogni famiglia ha delle regole) all’ambiente tecnologico, cercando di preservare quei valori che riteniamo che siano da preservare».
Per esempio «decidere che lo smartphone a tavola non si usa e fare conversazione, o decidere di vedere qualche volta un film insieme, stabilire che non si porta il cellulare a letto perché il sonno è qualcosa da preservare… Non serve che i genitori siano laureati in ingegneria informatica o elettronica e conoscano alla perfezione questi strumenti per poter educare al loro uso. Certo, è opportuno che se ne interessino, che abbiano una curiosità verso questo mondo, ma soprattutto che non abdichino alla loro funzione educativa».
Via gli smartphone da tavola, anche se «è lavoro»
Spesso sono proprio gli adulti a fare un uso eccessivo di device elettronici. «Io credo che se si pongono seriamente il problema di educare all’uso i figli, automaticamente si devono porre il problema sull’uso spesso tutt’altro che edificante che ne fanno loro. La questione di come usare gli strumenti non vale solo per i ragazzi, è una questione della famiglia, è la famiglia che decide delle regole che valgono per tutti: se si decide che non si usa lo smartphone a tavola non lo usano neanche papà e mamma, anche se “è una cosa di lavoro”». Che è la scusa più usata. «Poi certo, possono e devono esserci eccezioni, però nella normalità dovrebbero esserci regole che valgono per tutti, e io credo che questa possa essere una».
Un’impresa non da poco, dopo i quindici anni in cui, denuncia ancora Haidt nel suo saggio, abbiamo assistito alla “Grande Riconfigurazione” degli adolescenti, tra accesso incontrollato al mondo virtuale e aumento della limitazione dell’autonomia dei bambini nel mondo reale. Da dove partire? «Da questi dati, da questa petizione, dalla circolare del ministro dell’Istruzione che vieta l’uso dello smartphone nelle scuole primaria e secondaria». C’è chi parla di decisione retrograda di Valditara, a proposito. «Francia, Finlandia, Svezia, Olanda, Regno Unito, per citare alcuni paesi, hanno già vietato gli smartphone a scuola. Questa è la direzione giusta, così almeno un genitore sarà portato a pensare che forse se anche aspetta almeno fino alla fine della scuola secondaria di primo grado a dotare il figlio di uno smartphone non è fuori dal mondo, ma sta facendo la cosa giusta».
Le competenze digitali non si imparano sui social
C’è un grande equivoco, ben spiegato in un interessante incontro all’ultimo Meeting di Rimini a cui ha partecipato anche Alberto Pellai: i genitori pensano che le competenze digitali, sempre più importanti nel mondo di oggi, si acquisiscano utilizzando gli smartphone e permettendo ai figli di “smanettare” sui social. Ma le competenze digitali non si imparano su TikTok. «Assolutamente no», osserva Garassini, «anzi è molto più importante preparare l’uso di TikTok prima attraverso l’uso di altre applicazioni, di altri strumenti, di pc, tablet, anche la console per i videogiochi. Parliamo di strumenti che si possono condividere, che si possono usare in famiglia, con cui un genitore e un figlio possono fare delle cose insieme. Lo smartphone invece diventa una specie di terza mano, qualcosa di totalmente personale, molto difficile da condividere. Ecco perché è importante darlo quando ci si può fidare di quel ragazzino o ragazzina».
Tanti genitori dicono “ma io controllo tutto quello che fa dal mio cellulare”. «È un po’ illusorio dare uno smartphone a un bambino a 10-11 anni pensando di controllare tutto: primo perché è impossibile, qualcosa sfugge sempre, e secondo perché non si dà un messaggio molto incoraggiante al ragazzino. Meglio darglielo più tardi dicendogli che ci si fida e gli si lascia una certa autonomia. La capacità di usare questo strumento non è innata, va preparata: gli si può insegnare come usare un motore di ricerca, come verificare se una notizia è vera, come muoversi, insomma, all’interno di quello che è un universo in realtà molto più complesso dei soli social media, quello del web, e poi arrivare a usare i social».
Ogni tecnologia ha il suo giusto tempo
Come dice l’appello, ogni tecnologia ha il suo giusto tempo: «È giusto spiegare a un ragazzo come bloccare qualcuno su Instagram, ma gli si deve spiegare anche perché deve bloccare qualcuno: ma per arrivarci da solo deve avere una sua maturità affettiva, emotiva, che gli faccia capire quando è in una situazione da cui deve uscire. Questo non può succedere prima di una certa età». In attesa di una legge, chissà, si può cominciare a fare un patto tra genitori, insegnanti e ragazzi, come suggerisce Haidt nel suo libro (e come fanno in sempre più posti in Italia quelli dei Patti digitali), così da far cadere la prima – sciocca – obiezione che si fa quando bisogna decidere se regalare uno smartphone a un bambino: “Ce l’hanno tutti”.
Conclude Garassini: «Se ci si accorda, ad esempio, e tutti i genitori di una classe aspettano la fine della seconda media per regalare il cellulare ai figli, è più facile. È il vecchio detto per cui per educare ci vuole un villaggio. La sfida della tecnologia ci porta a riscoprire questo aspetto: noi educhiamo solo come comunità, insieme ci diamo delle regole, insieme cerchiamo di rispettarle e questo rende più facile poi anche farle osservare ai nostri figli».
Scuole, oratori, gruppi sportivi, ma anche comuni e istituzioni territoriali in diverse zone d’Italia hanno avviato patti di questo tipo, racconta Garassini: «Una settantina quelli avviati, un’altra trentina che si stanno avviando. Quattordici regioni già coinvolte e un flusso di richieste continuo. L’idea va nella direzione a cui guarda la petizione». Servirà una legge? «Può darsi di sì. Se pensiamo a come si è arrivati a vietare il fumo in molti luoghi in cui era normale fumare… forse anche in questo caso ci vorrà un po’ di gradualità, ma la direzione è quella».
Fonte: Piero Vietti | Tempi.it