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Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»

Il legame con l’amico Mario Melazzini e quello con padre Silvano Fausti, la canzone che «mi ha salvato» e il giudizio sulla musica di oggi. Il cantautore vincitore di Sanremo ’96, che quest’anno suonerà e dialogherà con il pubblico del Meeting di Rimini, si racconta.

Avevo quattordici anni quando alla radio intercettai Joe Temerario di Ron, singolo inedito incluso in una raccolta di successi. Acquistai quel vinile e lo conservo ancora come una reliquia: memoria di un imprevisto che allargò gli orizzonti musicali e non solo. Una canzone che trattava di un dialogo tenero tra padre e figlio e che rivelava a un adolescente irrequieto un modo costumato di vivere i rapporti familiari. Le canzoni di Ron aprono finestre sul mondo. È per questo motivo che ho voluto invitarlo al prossimo Meeting di Rimini per un miniconcerto intervallato da un dialogo sui brani. Al telefono, mi ha comunicato a sorpresa la volontà di ampliare la scaletta: «Dai, cantiamo! È quello che mi piace di più, suonare e cantare». È patrimonio della storia culturale del nostro Paese e messaggero di una fede illuminata dalla grazia, caratteristica spesso ignorata dall’industria discografica e derisa dalla critica musicale. Ron parla della musica come di uno spazio di silenzio e pace, un baluardo contro il frastuono del mondo: «Viviamo in un mondo malato e chiassoso. Io cerco nuove sonorità, specie ora che sto riarrangiando molti brani con l’aiuto di un grande pianista e della mia band. Tutto nasce dal silenzio, dal bisogno di tenermi lontano dal rumore». È la pace, dunque, la condizione indispensabile per ricrearsi. Lo canta in una canzone: «Solo nel silenzio non si è soli mai / Porta fino in fondo là dove c’è Dio / Dove sei te stesso.» (Nel silenzio, dall’album “Adesso” pubblicato nel 1999).

La sua musica è intrecciata alla fragilità della vita. Lo dimostra il legame con Mario Melazzini, medico e già presidente dell‘Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Quando a Melazzini fu diagnosticata la sla, la loro amicizia si fece più intensa, segnata da un’autentica condivisione del dolore. Mise a disposizione la sua musica per sostenere l’associazione e consolare. Nel 2016 nacque La forza di dire sì, un album di ventiquattro duetti con artisti italiani – tra cui De Gregori, Jovanotti, Pino Daniele, Lucio Dalla – per raccogliere fondi e ridare slancio alla ricerca. Non un gesto di beneficenza di facciata, ma la fioritura di un’amicizia compassionevole.

Ron parla di Melazzini: «Mario è stato – e lo è ancora – un vero maestro. È una persona che non abbandona mai nessuno. Mi ammalai anch’io. Impedito nel fare il mio lavoro, mi resi conto di quanto stavo perdendo. Poi sono ripartito grazie alla sua vicinanza. In lui ho visto la speranza. Ancora oggi combatte battaglie importanti, torna a casa arrabbiato, indignato, ma con un carico di attese, fiducioso». Un altro incontro decisivo fu quello con padre Silvano Fausti, in un periodo di smarrimento: «Avevo incontrato persone molto lontane da quello che predicavano. Ne ho sofferto tanto. Proprio in quel dolore mi sono aggrappato a padre Silvano. Ero deluso, non avevo più voglia di cantare». Gli ha insegnato la leggerezza, dando spessore spirituale alla sua ricerca di senso: «Ricordo che quando gli dicevo: “Sai, faccio fatica a pregare”, padre Silvano rispondeva: “Va bene, non preoccuparti, pregherà Lui per te”. Era una risposta che mi disarmava e insieme mi sollevava».

Gli chiedo se qualcuno gli abbia mai detto “Sai, quella tua canzone mi ha salvato” e a lui quale canzone lo ha salvato: «Sì, in tanti me lo dicono. E c’è stata una canzone che mi ha aiutato davvero. Non l’ho scritta io ma l’ho cantata e continuerò a suonarla senza stancarmi: si chiama The Road. Penso che l’adattamento di Lucio Dalla, Una città per cantare, sia riuscito ad arrivare ancora più in profondità del brano originale» (The Road è del 1972, di Danny O’Keefe, resa celebre da Jackson Browne, ndr). «Quella canzone mi ha dato una forza enorme. Io sono quella storia. Ricordo che da ragazzino, a tredici anni, camminavo in campagna tra girasoli altissimi che sembravano guardarmi davvero. Mi misi a cantare per loro come se fossero spettatori del mio primo concerto. Da allora quel desiderio non mi ha mai lasciato. Fare dischi è faticoso, ma andare in concerto è come respirare aria nuova, come avere ogni volta una speranza diversa, anche se canto le mie vecchie canzoni».

Il palco è per lui una soglia: «Cantare e suonare in teatro è una delle cose più belle del mondo. Si respira un’aria speciale, quasi d’altri tempi. Mi emoziona pensare alla storia di quei luoghi. Mi piace il silenzio, il rispetto che bisogna riconoscergli. Mi intristisco invece quando devo cantare in posti inadatti. Ma alla fine è il pubblico che fa la differenza: senza quel contatto non potrei fare questo mestiere». Gli rammento la sua primissima esibizione a Sanremo con Nada: «Me lo ricordo benissimo! Era il mio sogno. Salire su quel palco fu come trasformarmi in un leone. Ho passato i giorni più belli della mia vita, circondato dai miei idoli». Al Festival, anni più tardi, lasciò un segno vincendolo con Tosca: «Vorrei incontrarti tra cent’anni è una canzone diversa. Non ero sicuro che fosse “da Sanremo”. Penso che senza Tosca il Festival non l’avremmo vinto. Ma lavorare con lei fu fantastico. È una grande artista».

Inevitabile un giudizio sulla musica italiana di oggi: «Ho sempre avuto curiosità verso i giovani. La musica cerca sempre nuove strade. A volte manca un po’ di sostanza nei testi, ma è normale perché gli autori sono giovani. Non voglio essere duro: credo che ci sia del buono. Anche se il divario col cantautorato degli anni ’70-’80 è grande, vedo la voglia di andare avanti. Il rap, a parte qualche fuoriclasse, è un altro linguaggio, molto americano. Ma in tanti c’è una scintilla». Produsse il primo album di Biagio Antonacci. «Non ho mai prodotto dischi tanto per farlo: volevo che avesse un senso. Quando un ragazzo arriva con qualcosa di scritto bene, io quel rispetto glielo restituisco. Anche perché mi rivedo in loro: cominciai a 16 anni. Oggi ai ragazzi manca il tempo di crescere. Devono sfornare subito un singolo di successo. Non c’è più spazio per la gavetta, che invece serve».

Alcune sue canzoni come Ladri, Uomini del mondo e Mi sto preparando sono come un vangelo non scritto. Mi accompagnarono nei primi anni di missione sacerdotale e ancora oggi le ascolto quando ho bisogno di un gancio con il Mistero. Glielo comunico, con gratitudine: «Sapevo che quando scrivevo quelle canzoni c’era Qualcuno più grande di me che mi guidava. Ora che mi racconti la tua esperienza ne sono ancora più consapevole. Ho cercato sempre di mettermi a servizio della musica, non di servirmene. Uomini del mondo e gli altri brani citati non sono semplici canzoni: sono preghiere. Mi fa piacere sapere che ti seguono nel servizio sacerdotale. Mi onora davvero».

Perché la musica può isolarci o metterci in connessione con Dio e il prossimo. Ron è un artista che tiene insieme le persone, la realtà, il mondo. Ed è questa, forse, per un cantautore la qualità più grande. Ci salutiamo con la promessa di risentirci e definire la scaletta del miniconcerto al Meeting di Rimini. Volutamente non gli ho chiesto nulla di Lucio Dalla, suo amico, mentore e collaboratore di lungo corso: per Lucio scrisse Piazza Grande, Attenti al lupo. Ci sarà tempo per parlarne il 25 agosto alle 19 presso la Sala Neri del quartiere fieristico riminese in occasione dell’incontro dal titolo “Il racconto del potere salvifico delle canzoni”.

Fonte: Massimo Granieri | Clonline.org

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