Tutte le guerre in atto (Ucraina, Gaza, Yemen, Myanmar, Sudan) e in particolare le due vicine ci hanno risvegliato dal sogno della pace perpetua (un miraggio a cui ha creduto solo chi ha derubricato quelle scoppiate dopo la Seconda Guerra Mondiale). Nei cinquemila anni di storia umana documentabile sono registrate 15.000 guerre, tre all’anno in media. Per i Romani, di guerra era lo stato naturale dei rapporti con i popoli stranieri in assenza di patti. La pace non era un sentimento ma un accordo, pace ha infatti la stessa radice (pag-) di patto (pag-tum): legare due parti (ne rimane forse traccia in pagare, esser pari). L’episodio biblico di Caino e Abele illumina questa condizione: l’uomo non è un buon selvaggio alla Rousseau né un lupo per l’altro uomo alla Hobbes, ma un essere chiamato a scegliere di evolversi. Nel racconto infatti Dio dice a Caino tormentato dall’invidia per il fratello: «Perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai». Caino è chiamato a crescere: può scegliere la sua animalità (tenere la testa bassa) e non «guardare in faccia» il fratello, o la sua umanità (alzare la testa) aprendosi a lui. Quella di Caino è la prova di ogni umano: addomesticare l’animalità o bestializzare l’umano, aprirsi alla relazione o distruggerla. Caino preferisce negare la vita dell’altro invece di far crescere la propria. Perché non sceglie la seconda? E che cosa c’entra questo con Gaza per cui oggi si sciopera?
Spostiamoci all’ombra di un altro archetipo, considerando il finale dimenticato dell’Odissea. Dopo aver riconquistato il palazzo di Itaca, Ulisse si ritrova in guerra: i parenti dei pretendenti al trono che ha ucciso per liberare la reggia, si coalizzano per vendicarsi, e lui va allo scontro rinunciando a ogni tentativo diplomatico. Ma Atena lo ferma e, sotto le spoglie di Mentore (amico di Ulisse) stabilisce i patti di pace fra le due parti, ponendo fine alla guerra da cui l’eroe da vent’anni cerca di liberarsi da quando era dovuto partire, costretto, per Troia. Per farla finita devono intervenire gli dèi: l’uomo non ce la fa a uscire dalla guerra da solo, non ce la fa a essere in-nocente, a non nuocere all’altro. L’Odissea, DNA narrativo del Sapiens, si chiude quindi con patti di pace per intervento divino, un’aspirazione, un orizzonte per ricordare che certi problemi non possono essere risolti allo stesso livello che li ha provocati. Il salto di livello nell’Odissea è un’azione divina. E nel nostro mondo senza dèi? Dovrebbe essere il diritto, cioè patti superiori alle voglie del predatore.
L’unità di misura minima della guerra è infatti il duello, comincia sempre dalla menzogna, rappresentata in tanti western, che «non c’è posto per tutti e due in questo mondo». Sottomettere ed eliminare l’altro (dall’omicidio al genocidio) fa sentire vivi e unisce. La guerra serve all’uomo come illusione di senso: dà uno scopo a chi non ce l’ha, aggrega il gruppo grazie al nemico, evita la fatica di diventare umani. Poi saranno motivi ideali (credenze, ideologie, appartenenze), economici (risorse), politici (confini, potere) a giustificare (la guerra «giusta») il massacro, ma al fondo c’è Caino: se non sono felice qualcuno la deve pagare. Sin da bambini si gioca alla guerra: soldatini, battaglie navali, palla avvelenata, Risiko, scacchi… guerre stilizzate attraverso cui proviamo l’energia di uno scopo chiaro (abbattere il nemico) personale o collettivo. Ma chi scambia il gioco con la realtà è povero di destino e di legami: non sapendo chi è e che cosa fa qui, elude il vuoto distruggendo l’altro (il bullo senza la vittima non ha il gruppo ed evapora). Chi sa cosa fare della sua vita e ha relazioni sane evita la guerra. Vale al livello personale e collettivo: le persone cercano duelli e gli Stati provocano guerre per mancanza di senso, per crisi interne. Il nemico, e la sua invenzione, mobilita le energie spirituali del singolo e dei popoli, proprio come fa il desiderio (eros), ma con esiti opposti: il desiderio nutre la vita, la guerra si nutre della vita, uno genera, l’altra de-genera. La guerra è l’altro polo del desiderio, ma entrambi fanno sentire vivi. Il nemico è necessario a chi non conosce o tradisce il proprio scopo vitale (che dà vita). Per questo ci sono persone, aziende, partiti, Stati… che creano nemici: se non inventassero l’avversario, si disgregherebbero, privi come sono di energie creative, di scopo e di comunità. Noi ci siamo inventati dei nemici in Etiopia pur di sentirci «Italiani!». Nel capolavoro di Alan Moore, Watchmen, l’uomo più intelligente della Terra per salvare l’umanità dalla guerra nucleare simula una falsa invasione aliena che provoca milioni di morti, sperando che la comparsa di un nemico comune porti le forze mondiali avverse a coalizzarsi per il pianeta. Un piano folle per le vittime causate, ma «il più intelligente» per evitare la distruzione globale. E infatti funziona. Insomma la guerra è profonda quanto l’eros, ma mentre l’eros crea vita nuova la guerra illude di ottenerla prendendola ad altri. Che cosa fare? Da un lato bisogna «addomesticare» l’istinto al duello con il diritto, ma il diritto (soprattutto internazionale) è retorica se è un rapporto di forza camuffato da pace. L’azione sproporzionata e indisturbata (imbarazzante l’ipocrisia occidentale di fronte alle palesi violazioni) di Israele contro Gaza ne è la dimostrazione. Anche la cosiddetta «necessità» del riarmo europeo tradisce che oggi la guerra non è più la continuazione della politica con altri mezzi come poteva ancore scrivere nel 1832 nel suo trattato militare von Clausewitz: dopo la bomba, la politica è diventata la continuazione della guerra con altri mezzi. Dall’altra, soprattutto con i giovani, occorre un lavoro educativo profondo di scoperta della gioia della vocazione personale e collettiva: grazie a cosa fiorisce un uomo e una comunità? Al sacrificio della vita altrui o all’impegno nella e della propria? Testa bassa o alta? Sopraffazione o relazione? Chi conosce il proprio destino non ha tempo ed energie da sprecare, la gioia della costruzione e della connessione è di gran lunga più ricca del piacere della distruzione (chiedete al signor Lego).
Ma se oggi esistono stanze da distruggere a pagamento è perché non ci è rimasto che questo. Saremo sempre di fronte alla scelta: trasformare Abele in nemico o evolverci? Se saremo ricchi di vita spirituale, che è quell’altro livello dove l’umano attinge il senso, la gioia di vivere e dare la vita, faremo meno guerra, ma questo livello è trascurato dai nostri modelli educativi basati sull’ego e quindi sul duello più che sulla relazione e quindi sul duetto. «Figlio di Laerte, divino Ulisse ricco d’ingegno, fermati, cessa la guerra crudele, non sfidare l’ira di Zeus», dice Atena all’eroe che reagisce così: «Egli obbediva, lieto nel cuore. Poi fra di loro stabilì i patti Atena, figlia di Zeus, che a Mentore somigliava nel volto e nella voce». Ulisse è lieto di obbedire, di liberarsi della guerra e godere del suo destino: Itaca. E la dea sceglie proprio Mentore per travestirsi, perché è grazie all’educazione che l’uomo impara a trovare le parole per la relazione e a godersi la vita senza distruggere. E noi che siamo mentori di altri? Troviamo più energie nel fare «fuori» qualcuno (dal parlarne male a volerlo morto) o nel fare «dentro» di noi l’opera della vita? Dalla risposta sempre faticosa e mai assicurata a questa domanda dipende quanta guerra e quanta pace abbiamo in noi e attorno a noi in questo istante. Chissà quante cose avrebbero potuto fare insieme Caino e Abele…
Fonte: Alessandro D’Avenia | Coriere.it