la sua colpa riguarda tutti noi, protagonisti di una società che rende invisibili gli individui “marginali” per poi accorgersi della loro presenza e della loro identità fragilissima solo quando i limiti che abitano il dentro e il fuori delle loro vite, li porta al centro della cronaca nera
La riduzione della condanna ad Alessia Pifferi da ergastolo a 24 anni di detenzione ha generato molte reazioni. La donna aveva lasciato morire la propria bambina di 18 mesi, abbandonandola a casa da sola per più giorni, mentre lei era andata a stare dal proprio compagno di allora, raccontandogli di averla affidata ad altre persone. La riduzione della pena è stata motivata dai giudici con l’esclusione dell’aggravante dei futili motivi e con il riconoscimento delle attenuanti generiche. La corte d’Assise sembra aver accolto la richiesta della difesa di Pifferi di considerarne il ritardo cognitivo. Quegli anni di pena in meno sono stati dovuto al riconoscimento di un’oggettiva ridotta capacità di produrre un pensiero consapevole ed efficace. In base a questi motivi l’abbandono prolungato della figlia Diana, nella sua mente probabilmente non era correlato alla volontà di volerne procurare la morte. Semplicemente, il suo modo di agire e pensare le hanno fatto vivere come prioritario il bisogno di stare accanto ad un uomo da lei considerato compagno affettivo, piuttosto che a presidio e cura della sua bambina Diana.
Fa molta tristezza vedere quanta povertà ci sia nella vita di questa donna. Povertà nel senso più complesso della parola: povertà di parola, di significati, di relazioni cercate e trovate. Leggendone le vicende ci si rende conto di avere a che fare con una persona sguarnita di tutto, con limiti cognitivi oggettivi di cui c’era evidenza nella sua storia di vita, ma che non erano stati considerati al tempo in cui fu emessa la sentenza di primo grado. Anch’io, esprimendomi più volte su questo caso, ho sentito che la colpa oggettiva di questa donna era però da considerare nel quadro più ampio dell’isolamento sociale in cui si trovava immersa.
Una donna dai limiti così evidenti, una volta diventata madre, avrebbe dovuto essere aiutata, supportata, supervisionata. Le sue competenze parentali andavano analizzate, valutate ed eventualmente messe in discussione molto prima del tragico evento. Oggi ci colpisce anche constatare che la peggior antagonista di questa donna sia la sorella, che da quando il caso è diventato pubblico, l’ha sempre raccontata come colpevole e come indegna di qualsiasi forma di compassione e comprensione per il reato per cui è stata condannata. Un bisogno, quello della sorella, di puntare il dito “tirandosene fuori”, senza percepire invece quale abisso di corresponsabilità abita un sistema familiare così fragile. Questo non vuol dire che la colpa della morte di Diana stia altrove, sia chiaro. Ma significa che se ci si rende conto dell’incapacità a crescere una figlia da parte di un familiare, non si può rimanere in silenzio e comportarsi come se nulla fosse.
È vero che la vita di un neonato ha un valore che va al di là di qualsiasi pena inflitta per la sua perdita, ma è anche vero che Alessia Pifferi appare più vittima di se stessa e del contesto in cui la vita l’ha messa piuttosto che carnefice, a chi ne guarda da fuori le vicende di vita. Tutto il suo percorso è “marginale” e la sua invisibilità sociale è indubbia se in sei giorni nessuno si è mai domandato che fine avessero fatto quella donna e quella bambina. Anche la fuga d’amore che ha portato al totale sovvertimento delle priorità che ogni madre dovrebbe trovare già scelte nella sua vita (senza nemmeno stare a pensarci su), in lei sembra un gesto inevitabile alla ricerca di un posto nel mondo da conquistare costi quel costi. Essere a fianco di qualcuno per Alessia pifferi era più importante che avere qualcuno a cui stare a fianco.
Questa è una colpa? Certamente sì, se al tuo fianco c’è una bambina di cui devi avere cura totale perché lei non ne ha alcuna per se stessa. Ma quella colpa, nel caso di Alessia Pifferi, non riguarda solo lei. Riguarda tutti noi, protagonisti di una società che rende invisibili gli individui “marginali” per poi accorgersi della loro presenza e della loro identità fragilissima solo quando i limiti che abitano il dentro e il fuori delle loro vite, li porta al centro della cronaca nera.
Fonte: Alberto Pellai | FamigliaCristiana.it