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E se il «genio» della natura si salvasse
con la tecnologia?

Non basta ingegnerizzare la natura: bisogna saperla “ascoltare”

L’animale che ci è più prossimo e familiare, tanto da guadagnarsi il titolo inattaccabile di “miglior amico dell’uomo”, fino a qualche millennio fa conservava intatti aspetti decisamente ferini e selvaggi (e ostili). Il cane era, insomma, a tutti gli effetti ancora un lupo. Nel lungo tragitto che ha portato il lupo a diventare l’animale domestico per antonomasia, è custodita una traccia della qualità che appartiene più di ogni altra alla natura: la plasticità. Non solo la natura è in continuo movimento, non solo è infinita generazione ma essa cambia, reagisce e assorbe gli stimoli dell’essere vivente che più di tutti ha impresso vertiginosi – e spesso drammatici – mutamenti all’ambiente: l’uomo. Una mobilità non solo fisica ma anche concettuale e semantica: la visione cosmica di Eraclito è diversa da quella demiurgica di Platone, la visione creazionistica di matrice biblica è diversa da quella meccanicistica della modernità.
Ma cosa fare quando la capacità di assorbimento degli effetti dei cambiamenti impressi dall’uomo appare compromessa? Come salvaguardare la generazione che è la cifra più intima della natura? Come custodirla nell’epoca nella quale la rottura dei ritmi e degli equilibri naturali dovuti al poderoso sviluppo (economico, tecnologico, sociale) minaccia di produrre esiti catastrofici? Come riformulare quel “principio responsabilità” di cui, già nel 1979, Hans Jonas sottolineava l’urgenza nel momento in cui la natura sembra essersi eclissata come matrice generatrice per venire degradata a deposito dal quale estrarre cibo, risorse, energia, ricchezze? Come ripensare, insomma, la natura nell’età dello sfruttamento e della economicizzazione integrali di tutto ciò che vive?
Un possibile punto di partenza è focalizzarsi sulla qualità originaria della natura: la plasticità. È la “ricetta” suggerita da Giulio Boccaletti nel suo Il futuro della natura. Soluzioni per un pianeta che cambia (Mondadori, pag. 156, euro 18). Indietro non si torna, suggerisce il direttore scientifico del “Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti climatici”. È necessario bandire ogni mitizzazione: il ritorno alle origini, ripristinare un passato primigenio, incorrotto e incontaminato è impossibile. Non solo: per Boccaletti, non si può pensare di sciogliere i pesi che gravano sull’ecosistema naturale, non si può immaginare di sagomare il futuro della natura rinunciando all’altro bandolo della matassa: lo sviluppo economico e sociale, quel progresso che ha garantito l’uscita dell’uomo dall’indigenza, rivoluzionando il suo modo di vivere. Per lo studioso non c’è ritorno alla natura (e ai suoi equilibri) se non attraverso la mediazione dell’uomo (e dalla sua tecnologia): vale a dire, dalla capacità infinita di trasformazione che è propria dell’homo sapiens. Ma perché questa attitudine non si inabissi, capovolgendosi nel suo contrario – non più produzione ma distruzione –, bisogna integrare questa vis trasformatrice nella natura. «Superare la divisione tra natura e gestione per la sopravvivenza di tutti e tutto è il cuore della ricerca di un futuro sostenibile per la natura e per noi», scrive l’autore. Perché questo avvenga urge congedarsi dall’idea della natura come «vittima passiva del nostro inquinamento». Essa è «una macchina complessa, sulla cui stabilità e capacità di compensazione abbiamo fatto inconsapevolmente affidamento per salvarci da noi stessi». Proprio grazie alla plasticità della natura, si può, si deve puntare «l’integrazione tra strutture ingegnerizzate ed ecosistemi naturali».
Ma non c’è così il rischio che si perda la “voce” della natura, doppiata dalla tecnologia? Che si smarrisca quell’unicum che David Farrier chiama «la sconfinata genialità della natura» (Il genio della natura. Lezioni di vita dalla Terra che cambia, Touring Editore, pag. 288, euro 24)? Quale segreto ci cela dietro questa attitudine? In che modo si esprime? Come sottolinea il ricercatore britannico, la natura possiede una vocazione alla trasformazione, una motilità infinita che ritma i cicli naturali, non condannando(si) alla mera ripetizione dell’esistente ma dando vita a quel movimento (ascensionale) che la scienza ha catturato con il “temine” di evoluzione. La natura evolve, le specie evolvono, la vita – nel suo complesso – evolve. Scrive Farrier: «Da quasi quattro miliardi di anni, la vita sulla Terra sperimenta nuovi modi di essere, percepire, muoversi e riprodursi, trovando ogni volta nuove forme con cui affrontare le sfide del momento». È «l’inesauribile creatività della natura».
Ma perché questa generatività non vada compromessa, non basta ingegnerizzare la natura: bisogna saperla “ascoltare”. Bisogna penetrare nella sua ingegnosità, imparare dalla sua capacità di adattamento e trasformazione, liberandola dalla ideologia che abbassa la natura a deposito estrattivo. La natura può e deve essere ancora, suggerisce Farrier, una maestra di vita. Si tratta di una strada percorribile? Della sola enunciazione di un’utopia? Resta il nodo da sciogliere alla cui sua soluzione è appeso il “destino” della natura: la capacità adattiva degli ecosistemi può accordarsi con la spinta alla accumulazione infinita, l’imperativo totalitario che avvolge oggi l’intero pianeta?
Fonte: Luca Miele | Avvenire.it

 

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