Il film “The life of Chuck” inizia come una storia apparentemente distopica e finisce per diventare un racconto di formazione
Immagina la fine del mondo. Qual sarebbe la cosa peggiore? The Life of Chuck ci racconta gli ultimi mesi della vita di un uomo, o di tutti gli uomini. Immagina la lontananza, l’isolamento, la solitudine, oltre all’orrore per carestia, siccità, terremoti e il distacco della California. È solo un brutto sogno?
The Life of Chuck inizia dal terzo atto. Al contrario. Per raccontare una storia apparentemente distopica. Il mondo, sembra, sta davvero finendo. Le persone per le strade sembrano ormai rassegnate al proprio destino. L’ansia si diffonde, tra incendi, alluvioni, terremoti, epidemie, suicidi e tutto quanto rappresenta al meglio le più diffuse paure contemporanee.
Il regista Mike Flanagan (noto per la sua produzione horror) è bravo a rappresentare una componente insolita dei disaster movie, quella della disconnessione, che si mangia, attimo dopo attimo, il mondo digitale di oggi.
Prima tocca a internet, che prima va e viene e poi sparisce definitivamente, costringendo l’umanità a riorganizzarsi. Poi è la volta della televisione, che smette di intrattenere, informare, raccontare, perfino l’imminente apocalisse. E infine i cellulari che prima avvicinano e poi, quando inizia a mancare il segnale, separano l’umanità che si ritrova in preda alla disperazione.
È l’affresco del vuoto terrestre, risvegliatosi offline. È il panico da separazione. L’orrore della distanza anche virtuale. È la fine vera, che spinge le persone a tornare alle origini, a recuperare relazioni spezzate, storie interrotte, affetti sospesi. È il miracolo rivoluzionario della morte, che spegne la luce per tutti.
Ma in mezzo a questa nuova fragilità umana, ai lati delle strade iniziano a comparire degli annunci pubblicitari, distonici e sorridenti, di Charles Krantz, per gli amici Chuck. “Grazie per i tuoi 39 splendidi anni”. E inizia un nuovo capitolo del film The Life of Chuck.
Flanagan (e prima di lui Stephen King, autore del racconto da cui è tratto il film) ci racconta l’età adulta di Chuck, un uomo ordinario capace di straordinario. Il film cambia registro per proporci la catarsi di un uomo, il buon Chuck. Contabile, figlio di contabili. Una vita ordinata, senza eccessi, spettinata da un colpo di vita che lo trasforma in un ballerino di strada. Una scelta inaspettata, improbabile, quasi incoerente con la sua storia quotidiana. Ma una scelta per lui sana, salutare e promettente. Un guizzo di libertà, un sussulto di vita quando forse è ormai troppo tardi.
E poi il film The Life of Chuck si fa libro. Appare il primo atto, con l’infanzia di Chuck che spiega cosa unisce il protagonista alla fine del mondo (no spoiler), e il narratore prende il sopravvento, leggendo lunghi tratti del libro che spiegano il senso della morte, della vita (e dell’importanza di non sprecarla) e del film.Il genere distopico è un pallido ricordo. La trama di The Life of Chuck prende la piega del racconto di formazione mentre il tono si fa buonista, favolistico e raccomandatorio. Non basta l’espediente a ritroso per trasformare il film in un’opera compiuta o in un film memorabile, per cui correre al cinema. Ma il momento è cupo, il mondo impazzito e la fine del mondo una delle opzioni possibili. In più le vacanze sono davvero finite. Per cui, perché non coccolarsi con la vita di Chuck, prima che arrivi l’Apocalisse?
Fonte: Roberto Bernocchi | IlSussidiario.net