Non so come funzioni la memoria ma so che è tutto, perché la continuità dell’io dalla culla alla tomba non è nella materia (le cellule del nostro corpo mutano di continuo) ma nel regista interiore che, più o meno onestamente, seleziona e cuce le scene della storia che raccontiamo a noi stessi e a chi chiede: tu chi sei?
 
Ognuno di noi è una storia che vuole essere narrata, ascoltata, capita e tramandata. La mia memoria conserva da 40 anni un’immagine del sussidiario delle elementari, alberi in un bosco autunnale e didascalia: «se ci si perde il muschio sui tronchi indica il nord». L’informazione mi affascinò e rassicurò forse perché come tutti i bambini temevo di perdermi in un bosco (anche se adesso non so che me ne sarei fatto del nord per uscirne), come accadeva in tutte le storie che amavo e avrei amato, da Pollicino a Dante. Ancora oggi, se mi trovo in un bosco, cerco il muschio sulla scorza nord di faggi, querce, betulle, abeti… per sentire la dichiarazione della vita: «Sono fedele». La verità è questa fedeltà silenziosa nel frastuono mutevole del mondo. Col tempo seppi «il come» questo accade: nel nostro emisfero il nord riceve meno luce diretta, e il muschio, non avendo radici per trattenere l’acqua, cresce dove l’umidità è costante. Ma solo in una recente passeggiata in montagna, immerso nella lezione magistrale dell’autunno, spogliarsi delle cose morte e trovare colori in quelle moribonde, il muschio mi ha suggerito anche «il perché» accade…
 
Il muschio ha detto di attenermi alla verità dei boschi, alla costanza in mezzo al divenire, alla fedeltà delle cose che noi umani possiamo anche dimenticare o rifiutare, persi nella velocità che, oggi più che mai, ci evita il peso delle domande, come scriveva Pascal sugli affanni o i piaceri che ci procuriamo pur di distrarci dalla nostra insoddisfazione: «L’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: non riuscire a starsene tranquilli in una stanza» (Pensieri, 139) o in un bosco, perché solitudine e silenzio sono giudici incorruttibili. C’è, come nell’io, una memoria del mondo che dà pace, perché è la sua continuità, costanza e verità: il suo amen.
 
E il muschio mi ha ricordato che proprio in questo periodo, da bambino, andavo con i miei familiari a raccoglierlo nei boschi per il presepe natalizio: lo mettevamo poi per vari giorni sui giornali vecchi così che fosse fresco ma asciutto per accogliere un’altra fedeltà, quella del calendario che segnalava dai primordi il ritorno della luce dopo il solstizio d’inverno e ricordava da due millenni la storia di un Creatore così fedele al creato da farsene creatura: un bambino, come me.
 
E poi in queste date si andava al cimitero a trovare i cari. Pure quella era fedeltà della vita, perché la vita invisibile non è meno vita: i vissuti, benché sottratti alla vista, agiscono nei viventi, come l’amata zia che in famiglia abbiamo ricordato il 28 ottobre a trent’anni dal suo passare e di cui la mia memoria porta impresso l’ultimo abbraccio come un testamento d’amore sempre vivo. Anche sul lato nord delle tombe c’è il muschio.
 
Di fronte a queste fedeltà discrete e vitali svaniscono gli attori del potere e dell’apparire, scritturati dal nostro ego ferito e arrabbiato, che vogliono prendersi la scena: fantasmi inaffidabili e strepitanti a cui crediamo benché appartengano già alla morte e non alla continuità della vita. Nei boschi, nei presepi, nei cimiteri trionfa invece una pacifica e salda fedeltà: in un metro quadro di realtà c’è più verità che in miliardi di lamentele, accuse, pretese…
 
A proposito di muschio ricordo la storia narrata da un poeta irlandese cresciuto nella fattoria di «Mossbawn» (fattoria nel muschio), ricettacolo di memorie eterne come quella citata nel discorso del Nobel: «tanto tempo fa, a Glendalough, un sito monastico vicino a dove vivevamo e tutt’ora uno dei ritiri più ricchi di boschi e corsi d’acqua dell’Irlanda, San Kevin era inginocchiato con le braccia tese a forma di croce e pregava, quand’ecco una merla, scambiando la mano aperta per un posto dove posarsi, vi calò sopra, depose le uova e cominciò a covarle come se quella mano fosse il ramo d’un albero. Kevin allora, preso da pietà e vincolato dalla sua fede ad amare la vita in tutte le creature, grandi e piccole, rimase immobile per ore e giorni e notti e settimane tenendo la mano stesa finché le uova non si schiusero e agli uccellini non spuntarono le ali, fedele alla vita anche a costo di andare contro il buon senso, al tempo stesso un segnale e un promemoria: manifestazione di quell’ordine poetico nel quale possiamo finalmente arrivare a possedere ciò che abbiamo conservato crescendo» (Seamus Heaney, Sia dato credito alla poesia, 1995).
 
Kevin non aveva accudito un essere vivente, ma la Vita: «quello che fate a uno di questi piccoli lo fate a me» aveva detto Cristo affermando che il suo corpo si estende in ogni figlio della Vita. Per questo Kevin è santo: in lui c’è la vita di Dio.
 
Un tempo la commemorazione dei defunti era il giorno prima (31 ottobre) di quella dei santi (1 novembre), oggi il giorno dopo, a indicare comunque la continuità dei due mondi, dei vissuti e dei viventi, in un unica realtà: i vivi. La parola Halloween, festa oggi secolarizzata, significava infatti in origine «vigilia di tutti i santi» (All Hallows Eve): il santo vince la morte, cioè la mancanza di continuità, perché la santità è fedeltà alla vita che non muore.
 
Sanctus viene infatti dal latino giuridico sancire, rendere qualcosa intoccabile, ciò che è «san(ci)to» è sacro, inviolabile: appartiene a un livello di realtà indisponibile al tempo, o al capriccio e alla violenza degli umani. Ed è proprio in questa santità, che è sia fedeltà della vita (armonia), il muschio e il nord, sia fedeltà alla vita (cura), Kevin e il merlo, che la vita si rivela eterna. Mi piace ricordarlo con Pasolini – in queste ore ricordiamo il 50° anniversario dall’assassinio – che in Ragazzi di vita narra di Riccetto, ragazzino privo di qualsiasi regola morale ma all’inizio del romanzo non ancora corrotto, e quindi pronto a rischiare la vita per salvare una rondine finita nel Tevere, che i suoi compagni si divertono invece a veder annegare. Un episodio centrale della poetica di Pasolini tanto che l’aveva riadattato nel romanzo da un racconto friulano scritto in precedenza e da inserirlo più tardi nella sceneggiatura di un film mai fatto. Una scena in cui incarnava il vangelo ascoltato da bambino: scegli la vita e non la morte. Questo fanno le fedeltà nascoste, ci mostrano dove la vita è vera e non muore; non si tratta di nostalgia del passato ma di eterno presente. Infatti, anche se non ero nato, posso dire di «ricordare» l’8 novembre di 60 anni fa: quel giorno i miei genitori si sposavano. Li celebro non nel loro «resistere», che in molte coppie cela menzogne o convenienze, ma nel loro «ri-esistere», che è fedeltà alla vita nonostante errori e fatiche, perché come dice un altro poeta: «Ciò che sai amare rimane/ il resto è scoria/ Ciò che tu sai amare non sarà strappato da te/ Ciò che tu sai amare è la tua vera eredità» (E.Pound, Cantos, LXXXI).
 
Vero come il muschio a nord, quando mi perdo.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it