Un secondo ambito nel quale Newman supera la scissione tra oggettività e soggettività riguarda il rapporto tra la coscienza morale personale e l’autorità. Anche qui evita le visioni fondamentaliste e unilaterali. Secondo lui coscienza e autorità hanno bisogno l’una dell’altra. Da anglicano, Newman tentò di approfondire la tesi protestante secondo cui una persona normalmente si converte meditando da sé la Scrittura. Egli scrutò pertanto i testi sacri per vedere come gli uomini si convertivano nei racconti biblici e rimase colpito soprattutto da un particolare episodio: l’incontro tra l’apostolo Filippo e il ministro etiope. Quest’ultimo stava meditando il Cantico del Servo sofferente di Isaia. Alla domanda di Filippo se capiva ciò che leggeva, il ministro risponde: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?» (At 8,31). Newman interpreta questa risposta affermando che il cristiano non deve tanto cercare di capire da solo la Scrittura, ma piuttosto cercare qualcuno che gliela possa spiegare: un maestro. Compito principale della coscienza personale è dunque quello di riconoscere l’autorità da seguire.
Alcuni anni dopo Newman fa un passo in avanti e si chiede quale qualità dovesse avere quest’autorità che pretende di spiegare il senso delle Scritture e risponde: un maestro che vuole spiegare la Rivelazione deve avere la pretesa di essere infallibile, altrimenti non vale neanche la pena di ascoltarlo. Chi cerca la verità su Dio non cerca opinioni personali, ma la voce della Chiesa, cioè la voce di Cristo. Arrivato a questa intuizione, Newman chiede di essere accolto nella Chiesa cattolica, non certo per motivi di opportunità, ma per motivi di coscienza.
Venticinque anni dopo la sua conversione, il Concilio Vaticano I promulga il dogma dell’infallibilità papale e Newman si trova a confrontarsi con un nuovo problema. Alcuni cattolici ultramontanisti avevano interpretato il dogma fino a considerare il Papa infallibile in tutte le sue affermazioni. Newman ribadisce di nuovo l’importanza dell’infallibilità, ma senza dimenticare l’altro piatto della bilancia, cioè la coscienza morale del singolo. Senza negare affatto che la Chiesa abbia la potestà di insegnare con autorità sulle materie di fede e di morale, il Cardinale afferma: «Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia, prima alla Coscienza, poi al Papa».
Per Newman coscienza morale e autorità non si escludono a vicenda, ma si richiedono reciprocamente. Una persona che cerca sinceramente il bene e si accorge dei propri limiti non può che desiderare di trovare un’autorità che la possa guidare nella propria ricerca. Invece, un’autorità come quella della Chiesa, che non ha a disposizione mezzi di costrizione fisica, non può che far appello alla coscienza del singolo augurando che egli possa riconoscere il vero. La Chiesa e la coscienza morale sono per Newman due vicari di Cristo, il loro compito è quello di assistere il singolo nella sua ricerca della volontà di Dio.
Una terza tensione che Newman supera è quella tra i “moralisti” – che, in forza della comune chiamata alla santità, richiamano tutti all’osservanza della legge morale – e i “lassisti”, che giustificano le proprie colpe con il fatto che tutti gli uomini sono peccatori e che Dio è misericordioso. Newman si chiede quale sia la differenza tra il virtuoso antico e il santo cristiano. A tale interrogativo risponde così: il virtuoso antico, come per esempio il filosofo greco Aristotele, compie un encomiabile cammino di ascesi che lo porta a diventare sempre più buono e perfetto. Il risultato di questo cammino è però che, con il tempo, egli comincia a disprezzare sempre più i suoi fratelli che non hanno scelto la stessa via e sono rimasti impigliati nel peccato.
Il santo cristiano, invece, che progredisce sulla strada della fede, della speranza e della carità, più avanza più si riconosce peccatore. Non può disprezzare i peccatori, perché si sente uno di loro. Anzi, ammetterà di essere il più grande peccatore di tutti, anche perché si riconosce responsabile delle colpe dei suoi fratelli. Per il filosofo antico la misura della moralità è lui stesso. Per il santo cristiano invece la misura della moralità è Cristo. E paragonando la propria vita con quella di Cristo, anche la persona più santa non può che ammettere di essere ancora molto lontana dalla perfezione.
Con la santità, con la vicinanza a Dio, cresce il pentimento, il dolore per il proprio peccato. «Solo i santi cattolici si confessano peccatori, perché essi solo vedono Dio (…). È la visione di Dio dataci dalla fede, che ci rende umili ai nostri stessi occhi, facendoci sentire il contrasto che esiste tra noi e il Dio in cui ci è dato fissare lo sguardo».
Fonte: Michael Konrad | Clonline.org