La superstizione non può mai essere un modo per esorcizzare la paura della morte, come alcuni educatori ritengono facendo riferimento alle feste pagane d’importazione
Tra i poveri del nostro tempo, che non hanno da mangiare e da bere, ci sono anche i disagiati sulle strade dello spirito, gli emarginati dalla fede, i pellegrini di verità e di giustizia, coloro – soprattutto adolescenti e giovani – che raccolgono elemosina di pseudo-sacralità tra le odierne mode neopagane senza riuscire ad alzare uno sguardo di umanità verso la luce della fede in Gesù Cristo. Sono persone accecate da una “cultura di morte” che si diffonde quotidianamente in modo spesso subdolo e inconsapevole, attraverso occasioni collettive che si travisano dissimulando sotto forma di festa, di gioco, di innocente evasione da dolorosi problemi che gravano sulla vita di singoli sempre più soli, con legami affettivi sfilacciati e incerti, nell’incapacità di stendere la mano fiduciosa al volto splendente di Dio. Come accade ogni anno, nel fenomeno Halloween si intrecciano interessi commerciali e mistificazioni culturali. I primi emergono dai freddi dati del merchandising che la certificano come una ricorrenza inferiore per giro d’affari soltanto alle festività di fine anno. Non meno insidiose sono le seconde e cioè le giustificazioni che cercano di inscrivere Halloween nella nostra tradizione.
Malgrado i tentativi di collegarla a Ognissanti e alla commemorazione dei defunti, si tratta di realtà in nulla sovrapponibili. Festeggiare i santi e la memoria dei nostri cari scomparsi risponde all’esigenza spirituale di testimoniare devozione e ricordo per persone realmente esistite, e ciò nulla ha in comune con l’evocazione di zombie o figure mostruose di fantasia; per questo motivo, appare urgente riflettere sull’importanza di recuperare e promuovere una cultura della vita che, con la sua bellezza, offra esempi e modelli di speranza autentica, capaci di guidarci verso un rinnovato senso di responsabilità verso noi stessi e gli altri.
È necessario proporre a chiunque, e ancor di più a partire dal mondo cattolico, un’alternativa cristiana che già di fatto è presente nella vita liturgica ma che può e deve anche suscitare sempre più momenti di condivisione per attrarre innanzitutto i giovanissimi, favorendo l’opportunità di stare insieme divertendosi senza il bisogno di esaltare l’horror e sfregiare la vita. I santi, secondo la definizione di Leone XIV, sono «segni luminosi di speranza» in grado di «rinnovare il fervore dei credenti, portare frutti di riconciliazione, sostenerci nelle prove». La superstizione, invece, non può mai essere un modo per esorcizzare la paura della morte come alcuni educatori ritengono con riferimento ad Halloween. Al contrario delle tenebrose simbologie che favoriscono l’interesse per l’occulto solo la santità è capace, come insegna papa Leone, di «trasformare una vita normale in una lampada che ogni giorno illumina tutti con una luce nuova», indicando «obiettivi concreti e non effimeri, indegni e degradanti». Già Francesco insegnava che parlare con i santi e con i nostri cari che non ci sono più non è una superstizione né una cosa magica. La devozione ai santi è semplicemente rivolgersi interiormente a un fratello o una sorella che ha percorso una via giusta e ora è davanti a Dio: «Abbiamo degli amici in cielo, c’è un legame esistenziale che non si rompe». Talvolta anche il cristianesimo può cadere in forme di devozione che sembrano riflettere una mentalità più pagana che cristiana, ma la differenza sta nel messaggio: «I santi ci esortano a fidarci del Signore e a sentirlo sempre al nostro fianco».
Soprattutto oggi che immagini di morte irrompono nelle nostre case dai fronti di guerra occorre indicare esempi positivi piuttosto che il buio valoriale di Halloween, una ricorrenza che veicola una cultura negativa sulla morte, la cui origine è estranea alla tradizione cattolica e coincide con il picco di manifestazioni occultistiche.