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Pieni della domanda di Pasolini

Duemilatrecento studenti e docenti a Firenze nei giorni scorsi per dialogare “faccia a faccia” con il poeta di Casarsa durante i Colloqui fiorentini. «Una possibilità di scoperta e di cambiamento di sé»

Si è chiusa qualche giorno fa la ventiquattresima edizione dei “Colloqui fiorentini”: 2.300 studenti e docenti delle superiori provenienti da 17 regioni d’Italia, dalla Romania, dal Portogallo, dal Brasile e dall’Inghilterra si sono incontrati a Firenze (dal 27 febbraio all’1 marzo) per dialogare insieme sulle opere e sulla vita di Pier Paolo Pasolini.

Da cosa nasce un evento simile? Come ha detto in apertura del convegno Gilberto Baroni, presidente di Diesse Firenze, «i Colloqui fiorentini sono sostenuti da docenti appassionati alla letteratura perché appassionati all’umano». Soltanto in questo modo per i partecipanti al convegno l’umanità del poeta di Casarsa è diventata una possibilità di scoperta e di cambiamento di sé.

Il Pasolini dei Colloqui non è stato infatti il Pasolini marxista e politico, omosessuale e diverso, corsaro e intellettuale. Come ha detto nella sua relazione finale Pietro Baroni, direttore del convegno, nonostante lo scrittore bolognese sia stato tutto questo, la sua ferita non è riducibile a nessuna delle categorie ideologiche e sociali in cui lui stesso ha ricercato una risposta. Ciò è evidente nei versi finali di Teorema: «È impossibile dire che razza di urlo/ sia il mio. […] Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa/ questo urlo voglia significare,/ esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine». Non solo è impossibile spiegare l’urlo di Pasolini, ma è Pasolini stesso che non ne sa dire il significato.

Da qui anche il titolo dei Colloqui di quest’anno, tratto sempre da Teorema: “Io sono pieno di una domanda a cui non so rispondere”. Soltanto alla luce di questa ferita è possibile, allora, comprendere prima la militanza comunista negli anni Quaranta in favore dei braccianti friuliani, poi i film e gli Scritti corsari degli anni Sessanta e Settanta in opposizione al nuovo potere dei consumi. Come sempre infatti l’autore afferma in Teorema: «Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?». 

Da questa istanza deriva anche l’approdo alla narrativa degli anni Cinquanta, in quanto forma con cui documentare la vita violenta dei giovani poveri delle sagre friuliane e delle borgate romane, angeli custodi della speranza o, come nell‘omonimo romanzo, del sogno di una cosa indicibile e irraggiungibile. Ne consegue parimenti nel linguaggio cinematografico e poetico l’esperienza di una bellezza indefinibile, irrazionale e in quanto tale meravigliosa e dolorosa allo stesso tempo: «Straziante meravigliosa bellezza del creato», esclama il personaggio di Jago, interpretato da Totò, alla fine del cortometraggio Che cosa sono le nuvole?. O come si legge ne Il glicine, poesia finale de La religione del mio tempo: «Ah, la vita solo vera, è ancora/ quella che sarà: vergine lascia/ solo ai nascituri, il glicine, il suo fascino! E io qui, con questa scheggia/ immateriale in cuore, quest’involuta/ coscienza di me, che si ridesta a un attimo/ della stagione che muta. […] Questo fiore è segno,/ nel mio intimo, del regno/ della caducità- della religiosa caducità!».

Questa è l’umanità del Pasolini dei Colloqui. E questa umanità, disperata e vitale allo stesso tempo, è l’esperienza proposta ai docenti e agli studenti che hanno partecipato al convegno. Come infatti ha detto sempre Pietro Baroni all’assemblea docenti: «Soltanto assumendo su di sé le parole dell’autore e verificandole nella propria vita, è possibile che la sua esperienza arrivi anche ai nostri studenti». Per questo per molti ragazzi e ragazze dei Colloqui fiorentini incontrare Pasolini ha coinciso con una maggiore conoscenza di sé fino anche ad un vero e proprio cambiamento.

 

I Colloqui fiorentini a Palazzo Wanny (@Diesse Firenze)

Così è accaduto, per esempio, ad Eugenio, studente di un liceo di Prato, che già prima del convegno ha scritto al suo professore: «La ferita di Pasolini è la ferita di ognuno di noi». O come ha detto in uno dei seminari Matteo, studente di Milano: «Capisco la rabbia di Pasolini perché è una rabbia che sento anch’io. Anch’io, come lui, sono arrabbiato perché non mi sento capito». O ancora, ha riportato nel medesimo seminario Giuditta, studentessa di un liceo di Firenze: «Anch’io come il personaggio Paolo di Teorema mi sento nel deserto e urlo». I partecipanti dei Colloqui, tuttavia, non hanno incontrato soltanto il malessere del poeta di Casarsa, ma grazie alla compagnia di quei giorni, hanno visto anche una possibilità di essere liberi davanti alla propria ferita. Come ha aggiunto sempre Matteo nel suo intervento: «Davanti alla sua rabbia Pasolini cosa ha fatto? Ha scritto, ha realizzato film, ha denunciato che le cose non andavano. Ed io cosa faccio? Io sono venuto qua e ora lo sto dicendo a voi». La ferita non è scomparsa, ma è stata accolta, compresa, condivisa. Ha detto un altro studente, Lorenzo, durante il solito seminario: «Pasolini ci insegna ad uscire dalle convenzioni sociali. Ma poi se sono solo, rimango intrappolato in un altro schema. Mi sono accorto che soltanto appartenendo ad una comunità si può essere liberi». 

I Colloqui sono e sono stati questa comunità, in cui è possibile l’avvenimento della libertà e perciò del cambiamento di sé. Come ha detto alla fine dell’evento una studentessa al suo insegnante: «Prof, lei non si rende conto di quello che i Colloqui suscitano in noi. E non è solo un’emozione. Ti cambia qualcosa dentro». Verrebbe proprio da dire, con le parole di un altro studente durante uno dei seminari: «Anche Pasolini se ora fosse qui, sarebbe contento, perché da noi si sentirebbe amato».

Fonte: Clonline.org

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