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Card. Zuppi: «Al card. Biffi dava fastidio il politicamente corretto. E aveva ragione»

Mi reco a Bologna per conversare con il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana su un gigante della storia recente della Chiesa: Giacomo Biffi (1928-2015), scomparso dieci anni or sono l’11 luglio 2015. Desidero chiederne conto a chi siede al suo posto sulla cattedra di San Petronio e inizio con una domanda di rito: chi è stato per lui l’italiano cardinale?

«Innanzi tutto un predecessore e questo non è secondario, perché vivere la tradizione vuol dire raccogliere il tanto che altri hanno seminato. E bisogna dire che – sia per la lunghezza del suo episcopato a Bologna sia soprattutto per i contenuti e l’originalità della sua presenza – i riferimenti alla sua persona sono continui. Gli apoftegmi di Biffi mi accompagnano durante le visite nelle parrocchie e non sono soltanto quelli dei sacerdoti che l’hanno conosciuto e che sono cresciuti con lui, ma pure della gente, anche perché non ha fatto mai mancare battute icastiche e a volte graffianti, seppur sempre molto piene di umanità, che continuano a essere tramandate. Il Cardinale, come dicevo, è stato anzitutto un predecessore, e qui debbo e dobbiamo tanto al suo ministero, per la sua testimonianza umana, oltre al contenuto ricchissimo pastorale e teologico che ha offerto in quest’ordine. Per quanto mi riguarda non ha mai smesso di fare il teologo, ma non ha abdicato alla pastorale e diverse sue scelte sono continuate nel tempo. È stato così un riferimento e ha lasciato una grande eredità: raccogliamo tutti – come dice il Vangelo – dove altri hanno seminato e, in questo caso, dove ha seminato il cardinal Biffi. Tra le chiavi di lettura della città di Bologna, tenendo conto di una sua continua trasformazione, mi viene in mente il “sazia e disperata” che va compreso, come sappiamo, a partire da una statistica sulla tragedia del suicidio. Qui Biffi rivelava, al di là di letture superficiali o scontate, l’amore per la realtà umana della città e della Chiesa bolognese».

Il cardinal Zuppi non si arresta: «Un altro aspetto è il suo esempio umano, soprattutto per come ha affrontato la malattia, per come si è affidato. Non posso non citare il famoso discorso per l’ottantesimo compleanno – dove si vede l’arguzia –, in cui ha detto di soffermarsi un po’ di più sull’ora della nostra morte nel recitare l’Ave Maria. Un altro elemento è poi stato la capacità di offrire il contenuto evangelico con tanta sapienza umana, dove il suo commento teologico su Pinocchio ne è un esempio, così come gli Esercizi Spirituali predicati a due Papi (Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) ne sono un altro straordinario».

Il Presule cita pure il riferimento umoristico alla pigrizia, ritenuta da Biffi “una tenue e misconosciuta virtù” in grado di far evitare, se la si asseconda, grossolani errori: «Sono altre tre le cose che devo ricordare di lui: una è la pigrizia che mi ha sempre fatto sorridere e in cui mi sono ritrovato, e la seconda è il gusto della vita. Infine, non posso dimenticare il senso ecclesiale, la fedeltà e l’obbedienza alla Chiesa, senza far mancare il suo punto di vista, la sua originalità. È un aspetto importante, tenendo conto che se l’originalità diventa divisione è molto pericolosa, così come se prevale l’omologazione. Devo dire che il Cardinale è sempre stato un attento, un rispettosissimo figlio della Chiesa senza però mai rinunciare al proprio personale contributo».

Biffi aveva scelto come motto per l’Ordinazione episcopale Ubi fides ibi libertas, un’espressione di sant’Ambrogio, «una bellissima frase – diceva con umorismo – che egli deve aver copiato dal mio stemma episcopale». Il Cardinale, poi, parlava spesso di libertà, perché la grandezza di essere cristiani è di essere liberi e tale idea la mutuava proprio dal Patrono milanese, il quale – rifacendosi a san Paolo – ha parlato di “liberti di Cristo”. Domando se si è per caso spento il bisogno di Dio o se c’è ancora: «Certo che c’è qualcosa che è dentro l’anima di ciascuno! C’è quel pezzo dell’essere a immagine di Dio e che quindi ce lo fa cercare: è la nostalgia di Dio, come direbbe sant’Agostino; concetto ripreso nella bellissima preghiera del Venerdì Santo, per cui non troviamo noi stessi se non quando abbiamo trovato Lui. È indubbio che ci sia la nostalgia di Dio. Il vero problema è aiutare a rinvenire le risposte ed è questo il vero sforzo che dobbiamo compiere, perché la risposta non è in astratto, ma deve essere molto in concreto. E non è una formula, ma è un’esperienza, una storia, un incontro… papa Ratzinger quante volte ha detto che il cristianesimo è nella storia, “prima che una morale o un’etica, è avvenimento dell’amore, è l’accogliere la persona di Gesù”, è un incontro! E, invece, vediamo tanta difficoltà da parte di chi si professa credente: qualche volta ci innamoriamo e cerchiamo più delle formule, pensiamo di convincere e non di fare incontrare, giudichiamo con l’equivoco del giudizio, perché quando il Signore ci ammonisce di non giudicare – che non vuol dire non discernere o non entrare nelle situazioni – in realtà ci invita a fare come lui: guardare cioè con una lettura profonda, con la compassione, vivendo e facendo nostre le domande di tanti. Ecco, in questo facciamo una grande fatica, per cui se è certo che c’è ancora tanta nostalgia di Dio, c’è anche il rischio di volere un Dio individualizzato, fatto non a Sua, ma a nostra immagine e dimenticandoci che la Sua immagine è l’autentica nostra e se la dimentichiamo o la facciamo coincidere con la nostra semplicemente la perdiamo».

Mi soffermo sull’espressione «un cristianesimo individualizzato, dove tutto è a forma di benessere»: «– mi viene ribadito – questo è forse il pericolo più grande con tutto quello che comporta: una fede psicologizzata, che non parla all’anima ma alla superficie, che trasmette dei sentimenti superficiali e non fonda la struttura interiore della persona oppure che diventa un’entità informe, rinunciando a essere un grande punto di riferimento, ormai svuotato, senza volto né tratto. È come pensare che il Signore non abbia vissuto la passione, che non si sia sacrificato, che non abbia sofferto, mentre sono questi aspetti che interrogano il cuore di chiunque. Il Signore si è donato perché ci ha amato, affrontando il male per noi. Oggi, poi, c’è troppo poca comunità, cioè siamo una Chiesa in statu viae che – diciamo così – perdendo un’appartenenza scontata, acquisita, ereditata, non ha sostituito questi elementi già dati con la comunità, con la scelta, con i legami, con l’incontro. La difficoltà è, dunque, saper rispondere alla domanda della nostalgia».

A proposito della nostalgia presente in ogni cuore, Biffi ha insegnato a tenere uniti due nomi di Dio: la verità e l’amore. Ha scritto: «Non ha senso contrapporre la verità alla carità o ritenere che si possa avere una preferenza tra l’uno e l’altro dono di Dio. Verità e carità sono così intimamente connesse che non è possibile separarle. È indubitabile che solo quando è avvolta e permeata di carità, la verità si fa più largamente accettabile agli uomini. Ed è altrettanto indubitabile che proclamare con chiarezza, con coraggio, con integrità la verità del Vangelo, è il grado minimo d’amore verso i fratelli, senza del quale ogni diversa forma di benevolenza potrebbe essere inautentica o immaginaria». Domando a Zuppi un commento a queste parole: «Sono totalmente d’accordo con quanto espresso dal Cardinale e rivedo qui il messaggio della Caritas in veritate. Bisogna riscoprire – come si legge nella Lettera enciclica – l’“annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia” (n. 5). Questo è uno dei problemi più grandi, cioè come tenere unite verità e carità, tenendo conto che nella carità c’è già anche la verità e viceversa; il problema è l’esperienza, ossia come le vivo. Per analogia, è il rapporto che intercorre tra l’evangelizzazione e la promozione umana: quando finisce l’una e inizia l’altra? Devono starci tutt’e due, poi uno scopre che in quella promozione umana c’era già anche il Vangelo e che il Vangelo è sempre promozione umana».

Ripenso alla figura di Biffi che – secondo il giudizio di Benedetto XVI – è stato un «uomo di un coraggio straordinario, senza paura di popolarità o impopolarità, orientato solo dalla luce della verità, che in Gesù Cristo ci appare in persona». L’annuncio del Vangelo, senza sconti, è stata una sua prerogativa. Interrogo: ha ancora qualcosa da dire il metodo “biffiano”? «Quello moltissimo – mi sento rispondere –, così come la cultura e la capacità, per esempio, di far leggere i contenuti cristiani ed evangelici con la storia di Pinocchio. Avevano ragione sia Paolo VI sia Benedetto XVI: forse c’è più bisogno di attrazione e di essere più vicini. Questo, però, non significa perdere l’intuizione di Biffi, che è quella della libertas, ossia di non aver paura di dire qualcosa che può essere scomodo. Oggi, se manca la vicinanza, c’è il rischio di non far arrivare la comunicazione. Se non c’è il cuore del cuore e se non lo lasciamo far vedere riduciamo tutto a una lezione che rischia di rimanere inascoltata. Però, ripeto, questo non significa assolutamente rinunciare alla verità, come Biffi ha insegnato».

Intervengo, assicurando che era spesso un po’ divertito nel trovare la giusta e benefica provocazione: «Io penso che al Cardinale desse fastidio la stupidità, la banalità e il politically correct e aveva ragione, aveva ragione! Lui che non amava le etichette, implicitamente criticava il rischio di una Chiesa che blandisce, che rinuncia a dire, a prendere posizione. Questo è molto pericoloso. Biffi mal sopportava i “soloni”, le distorsioni della realtà, uno pseudo progressismo. Se – a mio parere – non bisogna fare sconti, allo stesso tempo si deve sempre mantenere aperta la comunicazione con tutti, come fa il Santo Padre e come diceva Biffi quando parlava del “dialogo”, altrimenti comunichiamo solo con noi stessi e quello che diciamo viene distorto, non viene più percepito. Il Cardinale godeva poi nel punzecchiare certi gnostici salottieri».

Prima di congedarmi dall’Eminentissimo, mi sovviene la lezione del primo successore di Biffi, il cardinal Carlo Caffarra, che ha lottato per tenere insieme Verità e Carità sia nella vita ecclesiale sia in quella sociale: «Se con Biffi non ho avuto un rapporto personale, al contrario con Caffarra ciò è avvenuto. Ci siamo incontrati e poi abbiamo condiviso un tratto di strada, fondamentale da parte mia e spero anche sia stato lo stesso per lui. Devo ricordare del Cardinale un profondissimo rispetto e una straordinaria sensibilità, ma direi anche un’apertura e una familiarità nei miei confronti. Per cui penso che – nonostante la sua grande sofferenza per alcune scelte che, come sappiamo, gli ponevano diversi dubbi, tanto dolore – traspariva in lui un abbandono totale alla Chiesa. I suoi dubbi nascevano dal fatto che la Chiesa, a suo giudizio, dovesse essere più se stessa. La sua è stata una grande lezione di tanto amore per la Chiesa e anche di una vita spesa fino alla fine per il Vangelo».

Fonte: Samuele Pinna int Card. Zuppi |  IlTimone.org

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