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Tutt’altro che declino, in un mondo che cambia

Interessante analisi, quella del Prof. Soave sulla crisi della diplomazia, e certamente meritevole di alcune sottolineature, vista la ricchezza di spunti di riflessione che offre. Per porre la questione nella corretta prospettiva, desidero cominciare dal fondo del suo articolo, poiché è lì che si trova il corretto punto di partenza, nella sintetica e felice definizione dell’arte diplomatica come «intelligente e preziosa ancella» della politica.

Perché è di questo che stiamo parlando. Non avrebbe senso alcuna valutazione, né a maggior ragione la proposta di qualsiasi soluzione, prescindendo da una chiarezza di idee su questo punto: non esiste alcuna diplomazia a se stante, poiché essa è, per definizione, una delle declinazioni istituzionali necessarie a completare e garantire l’efficacia dell’azione politica, al livello delle istituzioni internazionali. Né se ne può valutare lo stato di salute a prescindere da questa sua fondamentale “dante causa”, strutturalmente a essa preordinata, e cioè la politica, appunto.

E infatti, se vogliamo essere esatti, parlare di crisi della diplomazia significa in realtà parlare di crisi della politica, specialmente se consideriamo il piano statuale. Là dove infatti, a livello locale, una politica fiacca può comunque generare un dignitoso ripiegamento sulla buona amministrazione, la fragilità strutturale dei sistemi politici ai livelli più alti non trova rimedio se non recuperando le più profonde ragion d’essere di quei sistemi complessi che sono gli Stati, che è lo stesso che dire il loro scopo ultimo, e i valori che essi intendono servire.

Prima di ogni altra cosa, la politica è una attività di natura essenzialmente pragmatica. Il che non significa che essa non possa, o meglio non debba, avere una visione del mondo, dello Stato, delle persone e delle cose. Anzi. Proprio la carenza di visione è la causa prima della sua debolezza. E tuttavia essa ha l’obbligo del pragmatismo quanto alle soluzioni: non importa quanto articolate siano le circostanze che deve affrontare, esse e solo esse sono il suo terreno di prova.

Potremmo in effetti dire che “Hic Rhodus, hic saltus” (o “hic salta”, nell’adattamento marxiano) dovrebbe essere il suo universale motto, in quanto segno di assunzione di responsabilità (e cioè: non valgono scuse, o la politica cerca, e trova, soluzioni, o non è), ma anche di umiltà poiché essa, per quanto ami abbandonarsi a voli pindarici evocando valori superiori, di genere vario, è fatta di terra, solida e scura, su cui la storia deve poter appoggiare i piedi.

Ecco, se questo è, allora la diplomazia è la raffinata attrezzatura che permette di selezionare nei diversi casi, e nelle diverse parti del mondo, l’approccio più adatto, unendo all’acume dell’intelligence i vincoli strategici che la linea del governo a cui essa risponde deve avere imposto.

Ora, c’è chi ritiene che la politica sia l’arte del possibile. Non so se questo risponda in effetti a verità, poiché non raramente la politica si è rivelata in realtà l’arte dell’impossibile, come accade ad esempio ogni volta che si fonda un impero, o che si costruisce la pace (un esempio per tutti, ma straordinario: la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, voluta da Nelson Mandela a Frederik Willem De Klerk, che accompagnò il Sudafrica fuori dall’apartheid in una transizione impensabilmente pacifica).

Ebbene, nel compimento di questa missione umanamente non prevedibile della politica, la diplomazia incarna certamente il ruolo di «strumento della possibilità». Ed è per questo che, appropriatamente, essa deve essere costituita da «insostituibili mediatori culturali» (sempre Soave), più o meno tecnicamente dotati di specifiche competenze, secondo l’impostazione attuale, ma certo mai sostituibili né da una generica infarinatura di informazioni acquisibile in rete, né da forme qualsivoglia di diplomazia parallela, variamente rappresentante dall’opinione pubblica: una montagna di dati, infatti, non vale un’informazione ponderata, quale solo un diplomatico può offrire, né l’espressione emotiva di un “sentiment” può meritare il credito di una valutazione professionale di contesto.

Seguendo a questo punto il filo logico proposto dall’articolo dobbiamo dire innanzitutto che, benché esse siano certamente un male senza bene, le guerre non sono per forza un sintomo di crisi della diplomazia. Come minimo, tale assunto dovrà essere dimostrato, giacché non tutte le guerre sono uguali, e anzi esse dipendono da motivi anche assai diversi fra loro, da quelli molto locali (guerre etniche, o religiose) a quelli sistemici (energia, direttrici logistiche strategiche, ecc). Il che implica che il proliferare delle guerre potrebbe dipendere, e in parte certamente dipende, anche da altri fattori, quali ad esempio l’accresciuta complessità del sistema globale.

Senza contare che vi sono anche massacri che dipendono dall’abbandono militare di scenari di crisi, come fu nel 2021 il repentino e inspiegabile ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, lasciando a un tempo nelle mani dei Talebani una popolazione inerme da angariare, così come un nutritissimo arsenale, incluse armi pesanti e carri armati, con cui poterlo fare più efficacemente.

Più netta nell’articolo l’affermazione secondo cui «la proliferazione dei conflitti trova spiegazione nell’assenza di un vero e proprio ordine internazionale», con la conseguente disputa fra l’impostazione liberaldemocratica (occidentale) e quella «multipolare… intesa anche come gradazione di democraticità». Certamente, che tale doppia visione esista non v’è dubbio, poiché così come l’Occidente ambisce a estendere il proprio modello culturale, che per definizione ritiene il migliore, così la superpotenza orientale ritiene soggettivamente di avere lo stesso diritto, e cioè quello di gestire un’area di influenza geopolitica, ampia a piacere e in crescita, sostanzialmente pacifica al suo interno.

In questo senso, tutte le operazioni di tal genere nella storia dell’umanità si somigliano, e tutte somigliano all’archetipo originario, quello cioè della Pax Augustea, tra il I e il II secolo dopo Cristo, con analoghi obiettivi e metodi, e similmente ricercate ricadute reputazionali su chi la rende possibile.

Questa simmetria geopolitica, che è un dato di fatto, mette oggettivamente in discussione l’assunto in base al quale tale ordine (a cui si aspira, ripetiamolo, non concedendo che già vi sia) «non possa essere che» il nostro, ovvero il modo in cui noi descriviamo il nostro. Ai nastri di partenza, in effetti, tutte le parti del mondo hanno il diritto di rivendicare che l’ordine «non possa essere che» quello che ideologicamente ciascuna rappresenta.

Ma vi è di più che richiama la nostra attenzione. L’invocazione di un ordine mondiale, ancor prima di definire quali debbano esserne le caratteristiche specifiche, deve rispondere a una domanda preliminare ineludibile, e cioè quale ne dovrebbe essere il fondamento. Parlare di «principi legittimanti condivisi», infatti, benché evocativo di auspicabili accordi sovranazionali, non indica tuttavia alcun termine giuridico valido, né alcun ente istituzionale conosciuto. In altre parole: non indica una fonte di sovranità, e francamente questo è un passaggio logico da cui non si può prescindere, se riteniamo che questo “ordine” debba godere di una qualsiasi forma di legittimità.

Accantonando quindi per il momento la questione della possibilità teoretica di un “ordine mondiale”, in un quadro democratico perlomeno (un ordine mondiale autocratico può ignorare le questioni di legittimità, è chiaro, ma credo non sia questo il tipo di ordine a cui nessuno di noi aspira), sarebbe effettivamente di grande interesse poter procedere ad una analisi dei conflitti in corso nel mondo dal punto di vista eziologico, e non solo con riferimento ai due che giganteggiano nel sistema dell’informazione nei paesi occidentali, e cioè il conflitto ucraino e quello in Medio Oriente. Esistono infatti molti altri scenari di guerra, in tutti i continenti, come i multipli che coinvolgono il continente africano, le tensioni nel Mar Cinese Meridionale, o nel Kashmir, i conflitti interni in Ecuador e Colombia, senza contare situazioni che guerra non si possono chiamare ma certamente conflitto sì, come le proteste in Venezuela ad esempio, eccetera. Una tale analisi infatti potrebbe aiutarci a comprendere meglio se le guerre si originino dalla carenza oppure dalla presenza di una forte determinazione politica, e in tal caso con che caratteristiche.

Un’ultima osservazione, a proposito dell’affermazione più importante tutto l’articolo: «Il grado di civilizzazione di una comunità internazionale non risiede soltanto nella fermezza con cui essa reagisce alle aggressioni, ma anche nella capacità di continuare a pensare la pace». Sottoscrivo pienamente la seconda parte della frase. La prima mi pare rappresentare piuttosto l’efficienza e l’efficacia di una organizzazione internazionale, più che il suo grado di civiltà, e pertanto la ritengo parzialmente incongruente. Tuttavia, quanto alla seconda parte, essa ha il merito non solo di affermare una verità certa, ma anche di invitare alla riflessione sulle caratteristiche che tale pace debba avere, per essere valida e per essere duratura.

Correttamente il Prof. Soave fa riferimento alle parole esortative di Papa Francesco, ma mi sento di richiamare qui, con almeno altrettanta legittimazione, in quanto anch’essi Capi di Stato, le parole costantemente ripetute tanto da Donald Trump, che del ristabilimento della pace sia in Ucraina sia in Medio Oriente ha fatto il cavallo di battaglia della sua vincente campagna elettorale presidenziale, quanto da Xi Jinping, il quale non cessa di ribadire, almeno nella parte del mondo sotto la sua influenza, ma in verità anche in tutte le sue visite in paesi occidentali, la ferma tensione della Repubblica Popolare Cinese alla costruzione di un mondo pacifico e di libero scambio culturale ed economico. Quale che sia la nostra impostazione ideologica, e la simpatia o meno che possiamo nutrire per i due leader, non v’è dubbio che anch’essi siano inesausti invocatori della pace mondiale.

E’ chiaro che parlare di pace non basta. Né per il Papa, né per i due presidenti. Tuttavia è un inizio. E, per rispondere con ragionevole speranza all’accorata perorazione a favore della diplomazia, e del suo ruolo strategico, espressa da Paolo Soave, proprio da questi due presidenti forti e volitivi, sembra venire offerto lo spazio «di quello iato fra politica e guerra in cui opera la diplomazia (…) di quella relazionalità che è in definitiva alla base dello sviluppo e della sopravvivenza dell’umanità» che egli rimpiange.

Se così fosse, come ci auguriamo sinceramente, se cioè dal vertice dei due estremi del mondo si sta davvero invocando una stagione volta a gestire i conflitti evitando la guerra, allora i giochi sarebbero tutt’altro che chiusi, per costruire una pace giusta e duratura, senza bisogno alcuno di ricorrere a sovrastrutture istituzionali aggiuntive sovranazionali. Semmai, richiamando quelle esistenti, prima fra tutte la vasta e intricata ragnatela dell’ONU, alla responsabilità che a essa compete, quella cioè di offrire supporto tecnico di alto livello ai governi nazionali di tutto il pianeta, per agevolare l’individuazione pratica delle soluzioni più efficaci, zona di crisi per zona di crisi, per mediazioni che tengano conto delle linee politiche espresse dagli esecutivi legittimi coinvolti.

E questo, francamente, è tutt’altro che declino per l’evocato Homo Diplomaticus. Semmai la chiamata a una nuova, sfidante, stagione di responsabilità.

Fonte: Irene Pivetti*| Lisander.com

*già Presidente della Camera dei Deputati

 

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