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Per un pugno di alberi

Ho dato questo compito ai miei studenti: fare una passeggiata senza cellulare lungo un notissimo tragitto cittadino, parco compreso.

Dovevano trovare: tre alberi diversi, un pozzo, un mercato, delle palle di cannone, una statua… e rimanere aperti a tutto ciò che sarebbe accaduto nel frattempo.

È stato bello ascoltare lo stupore di chi si era accorto di quanta realtà contenga la realtà quando le diamo il tempo di accadere. E così c’è chi si è goduto la musica di un artista di strada, chi le prime caldarroste, chi la storia di un ambulante… e poi gli alberi di cui non avevano idea se non in astratto: lungo il tragitto ce ne sono almeno 30 tipi (dal tasso al ginkgo, dall’acero al liquidambar). Il concetto generico di albero si è popolato di singolarità e poi di nomi (letti sui cartelli del parco).

Riuscire a dare del tu alle cose è l’unico modo di custodirle: non possiamo dire amico qualcuno di cui non conosciamo il nome e le caratteristiche che lo rendono unico. La violenza comincia sempre dall’eliminare l’unicità come dice Vasilij Grossman all’inizio del suo capolavoro: «Le izbe russe sono milioni, ma non possono essercene – e non ce ne sono – due identiche. Ciò che è vivo non ha copie. Due persone, due arbusti di rosa canina, non possono essere uguali, è impensabile… E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne» (Vita e destino). Se la vita si spegne non dipende da lei ma dalla violenza, che inizia dalla disattenzione. Come uscirne?

Dallo stupore dei miei studenti ho colto che il desiderio di connessione con il mondo è fortissimo, ma è addormentato dall’uso pervasivo degli schermi.

L’intelligenza artificiale dei telefoni più recenti è «visiva»: basta puntarli su qualcosa per sapere che cosa stiamo guardando. La prossima frontiera sono infatti gli occhiali a intelligenza artificiale, avremo lo sguardo «informatizzato».

Ma se l’informazione precede l’incontro con le cose rischiamo di perdere la connessione emotiva con la loro vita, invertendo il percorso che da millenni ha guidato il Sapiens: prima viene il rapporto vivo con il mondo, lo stupore, e poi la sua scoperta, la conoscenza. Non ci innamoriamo di qualcuno leggendone il curriculum, ma incontrandolo. La vita «datificata» è più fredda di quella «data». La «datificazione» del reale ne offusca il livello simbolico (di «legame», che è il significato originario della parola simbolo) cioè relazionale. Non a caso un’alunna ha raccontato del tasso, che non conosceva e che l’ha colpita perché le assomiglia: un albero fa scoprire a una quattordicenne della gen Z qualcosa di sé. Non si ama «la natura» in astratto, ma ciò che si sente come parte di sé. Un’educazione «cosmica» stringe legami (simboli) con le cose, ciò che scopro fuori di me parla a me e di me: «Il tasso mi assomiglia: piccolo rispetto ad altri alberi ma resistente a tutto e sempreverde». Non se lo dimenticherà più, ha aggiunto un nome alla realtà (il tasso fuori di lei) e a sé stessa (il tasso in lei), in un simbolo-legame che dà consistenza all’esistenza irripetibile di entrambi. Un altro ragazzo ha parlato del «bagolaro» perché è un albero meno noto, originale, come lui. Invece la bellezza dei colori già autunnali del gingko non poteva sfuggire ad una ragazza appassionata di armocromie e moda.

La profondità delle cose è attinta solo nell’incontro tra due unicità, e questa dimensione che potrebbe sembrare solo estetica e psicologica è in realtà etica: il legame con le cose offre sempre un orientamento, una scelta, un destino.

Mia madre mi ha raccontato che quando piangevo metteva la carrozzina sotto un albero, il movimento delle foglie illuminate mi calmava e incantava per ore, credo venga da lì il mio amore per gli alberi e per la contemplazione. Solo lo stupore conosce: ci innamoriamo prima di sapere, ma poi vogliamo sapere di più di ciò che amiamo e quel sapere diventa amore, in un circolo virtuoso che si chiama «appartenere».

Oggi il mondo è disincantato per mancanza di simboli, i legami con le cose: siamo schermati e la curiosità (che viene da cura e della cura è il primo gradino) si riduce a dispersione e dopamina (la ricompensa immediata), e non diventa amore e profondità. Tutto va contro il più semplice ed efficace degli obblighi educativi: «Guarda!», l’invito con cui il genitore o il maestro accompagnano il dito che indica qualcosa di bello, là fuori, perché il bambino avverta il miracolo del mondo grazie a chi lo ha già incontrato e ne passa il testimone (lo testimonia).

Lo scrittore David Foster Wallace diceva infatti che scrivere è «fare il massaggio cardiaco agli elementi di umanità e di magia che ancora resistono e luccicano malgrado l’oscurità dei tempi». Cioè: «Guarda!». Ridimensionare il «sé schermato» in favore del «sé aperto» ci fa ritrovare un rapporto vitale con cose e persone: è lì che nascono le vocazioni, perché «presto attenzione» solo a ciò a cui sono legato.

Dell’autunno, ridotto a foto del foliage, ignoriamo chi lo indossa in stili differenti e unici: larici, frassini, castagni, querce, aceri… E chi perde le differenze, diventa pian piano in-differente. Gli esseri viventi si estinguono o nascono dentro di noi prima che fuori. Siamo poveri di mondo perché ci viene consegnato da fredde astrazioni e non da unicità, da informazioni e non da narrazioni, da dati e non da stupori. Sappiamo differenziare i rifiuti ma non le cose vive. 

Dobbiamo tornare a stare nel mondo come fine e non solo come mezzo, solo questo consentirà alla realtà di rivelarci come vuole che ci prendiamo cura di lei, perché ognuno ne è sedotto in modo diverso. Quando Ulisse, tornato dopo vent’anni a Itaca, non viene riconosciuto dal padre, gli dice: «I nomi degli alberi di questo frutteto ben coltivato io ti dirò: un tempo me li donasti e io, ancora bambino, te li chiedevo uno per uno venendoti dietro nell’orto; in mezzo ad essi andavamo e tu mi dicevi il nome di tutti; tredici peri mi desti, e dieci meli, e quaranta fichi, cinquanta filari di viti mi promettesti, che maturano in tempi diversi, e vi sono grappoli di ogni tipo, nelle stagioni di Zeus». Al sentire queste parole a Laerte «si sciolsero le ginocchia e il cuore nel riconoscere i segni sicuri che gli rivelava Odisseo». In questa scena è il figlio a restituire al padre «i segni sicuri» del «guarda!» di un tempo, e gli alberi, uno per uno, nome per nome, sono simboli (legami) della verità: «Sono io, tuo figlio». Il padre allora «vede» il figlio attraverso i nomi del mondo che gli aveva dato in eredità quando era bambino, un vissuto che nessun paio di occhiali «intelligenti» avrebbe potuto rivelare, perché apparteneva solo a loro.

Ho chiesto ai miei studenti perché non fanno più spesso queste camminate se sono così belle e mi hanno detto che non hanno tempo, salvo poi verificare sul minutaggio delle app che di tempo ne avrebbero in abbondanza.

La vita è sì scomponibile in «data» (i dati), ma è prima di tutto «data» a chi si fa trovare. Anche solo in una passeggiata…

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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