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NDI GREGORY E CURE PALLIATIVE/ Medicinali urgenti, quella riforma dell’Aifa che non può più aspettare

Cure palliative per malati terminali: il caso Indi ripropone il tema. L’UK le snobba. Italia arretrata nei tempi di approvazione dei farmaci

Premessa: è vero, la Gran Bretagna istituzionalmente è fuori dall’Europa, ma in realtà ne rappresenta una delle fonti ispiratrici più profonde, soprattutto sul piano sanitario. Per questo vogliamo soffermarci a ragionare su due fatti: la scoperta delle cure palliative e la creazione dell’EMA. Paradossalmente la prima funziona meglio da noi che da loro. Ma non così la seconda!

Cure palliative, le origini

Nella drammatica vicenda della piccola Indi Gregory e davanti al rifiuto della Suprema Corte, forse non tutti sanno o ricordano che fu Cicely Saunders, inglese, a “inventarle”, creando e il movimento hospice oltre 100 anni fa.  Nel 1918 nasceva a Londra Cicely Saunders, il cui nome è sinonimo della nascita delle cure palliative moderne. Il movimento da lei fondato è il risultato di decenni di lavoro condotto nell’assistenza ai malati in fase terminale, sviluppato soprattutto in ambito anglosassone, statunitense e britannico dove, tra la fine del 1800 e il 1967, vennero fondati diversi centri. Il principio su cui si basa questo movimento scientifico-culturale è che la persona gravemente malata, seppur inguaribile, sia però curabile. La cura viene intesa come prendersi cura della persona nella sua interezza, del suo nucleo familiare e amicale, della complessità dei suoi bisogni in ottica multidimensionale.

Nel complesso le cure palliative consistono, infatti, in un insieme di interventi finalizzati ad alleviare sia i sintomi fisici della malattia, per esempio il dolore o la nausea, sia quelli psicologici, dalla sensazione di rabbia alla depressione e alla paura. La legge 38 in Italia riprende questo concetto e afferma: “Per cure palliative si intende l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.

Le cure palliative, quindi, sono quell’insieme di cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita sia del malato in fase terminale che della sua famiglia. La fase terminale è una condizione irreversibile in cui la malattia non risponde più alle terapie che hanno come scopo la guarigione ed è caratterizzata da una progressiva perdita di autonomia della persona e dal manifestarsi di disturbi (sintomi) sia fisici, ad esempio il dolore, che psichici. In queste condizioni, il controllo del dolore e degli altri disturbi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria.

Lo scopo delle cure palliative non è quello di accelerare né di ritardare la morte, ma di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine. Le cure palliative sono state definite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come “un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di un’identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e di altre problematiche di natura fisica, psicologica, sociale e spirituale”. Nell’ambito della storia della medicina costituiscono una svolta epocale che traduce in fatti concreti il diritto della persona ad essere curata sempre e comunque anche se la prospettiva della guarigione non è più contemplata.

A questo punto è lecito chiedersi perché questa rivoluzione di profonda umanità, di enorme rilievo sul piano scientifico e sociale si sia smarrita proprio in Gran Bretagna, come abbiamo visto in una serie di casi recenti, di cui la piccola Indi è solo  l’ultimo. Prima di lei, ad esempio, c’era stato il caso di Charlie Gard. In fondo è quanto chiedevano i suoi genitori.

Farmaci “veloci”: l’Ema

Sono anni che il Parlamento italiano sta cercando di attivare la riforma dell’AIFA, Agenzia italiana per il farmaco, accusata spesso di un eccessivo ritardo nel rendere disponibili farmaci già approvati dall’EMA, Agenzia europea del farmaco. La fondazione dell’EMA è avvenuta nel 1995 con i contributi finanziari dell’Unione Europea e dell’industria farmaceutica e sussidi economici indiretti. La Commissione europea e l’EMA hanno stretto, nei giorni scorsi, un accordo di lavoro con l’OMS che consentirà lo scambio tempestivo di una serie di informazioni non pubbliche su sicurezza, qualità ed efficacia dei medicinali già autorizzati o in fase di revisione nell’UE o pre-qualificati o in fase di revisione da parte dell’OMS.

Questa collaborazione rafforzerà la comunicazione tra le organizzazioni e renderà più facile e veloce l’attuazione di provvedimenti a tutela della salute pubblica. L’accordo dovrebbe accelerare, in tutta l’UE, l’accesso dei pazienti ai farmaci innovativi, evitare la duplicazione delle valutazioni e migliorare l’autorizzazione e la sicurezza dei medicinali coinvolgendo le migliori competenze di entrambe. Il fatto grave però è che nonostante EMA e OMS siano così attente nella verifica dei dati e così prudenti nel momento di autorizzare la messa in commercio di un farmaco, quando questo arriva in Italia, tutto ricomincia da capo e i pazienti debbono attendere molte settimane prima di accedervi con tempestività e sicurezza.

In teoria il tempo massimo dovrebbe essere di due mesi, ma in realtà non è mai così. “Entro 60 giorni dalla data di pubblicazione della sintesi della Decisione della Commissione europea nella Gazzetta Ufficiale dell’UE di nuove AIC, l’AIFA emette il provvedimento di classificazione nella sezione dedicata ai medicinali non ancora valutati ai fini della rimborsabilità a carico del Servizio Sanitario”. In realtà il rapporto EFPIA, concentrato sull’Europa, misura in 429 giorni, quindi circa 14 mesi, l’attesa tra la prima autorizzazione all’immissione in commercio Ema e la rimborsabilità nel nostro Paese. È facile immaginare la frustrazione dei pazienti italiani, soprattutto quando quel farmaco non ha alternative. Sono due problemi, diversamente drammatici in cui l’Europa potrebbe trovare scelte univoche e condivise. Poter dire in tutta Europa ok alle cure palliative, evitando la deriva anglo-olandese e fare propri i tempi EMA potrebbe essere un modo concreto di fare un salto in avanti nella costruzione ideale di una Europa migliore, più unità da una medesima cultura.

Fonte: Paola BINETTI | IlSussidiario.net

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