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Il vero merito della scuola

 

All’origine della parola «merito» c’è il verbo latino «merere» che significa guadagnare e ricevere la propria parte. Non solo dal punto di vista economico.

«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta». Dovrebbe essere scritto all’ingresso di ogni scuola: ogni studentessa e ogni studente, a qualsiasi età, meriterebbe ogni mattina di essere accolto con queste parole. A scuola un giovane passa la maggior parte del suo tempo per ricercare. Se stesso e il mondo. Socrate quelle parole le ha ripetute sino a quando ha potuto.

È la primavera del 399 a.C. quando Socrate viene accusato davanti al tribunale popolare di Atene di aver introdotto in città nuove divinità e di corrompere i giovani con i suoi metodi di insegnamento. E per queste accuse viene condannato a morte, come sappiamo, tramite avvelenamento con la cicuta. Una data il 399 a.C. destinata a entrare nella storia, in quella dei libri e in quella delle nostre vite.

Il filosofo ha settant’anni quando viene accusato di essere un uomo pericoloso con la sua ossessione di non accontentarsi mai della verità apparente. Qual era il pericolo costituito da Socrate? Perché secondo gli accusatori e l’opinione pubblica corrompeva i giovani? Perché dialogava con loro, nell’agorà, la piazza che era il cuore di Atene, stimolandoli a ragionare sempre e a guardare ogni ragionamento da più punti di vista. Socrate dava fastidio come un insetto a chi non amava il suo modo di porsi. Lo chiamavano tafano. E per dare un nome all’abilità di questo tafano da sempre si usa il termine maieutica, che letteralmente indica l’arte dell’ostetrica e metaforicamente la capacità di chi, come Socrate, porta alla luce nuove riflessioni e giovani nuovi, per averle scoperte dentro di loro. La scuola, ci insegna Socrate, è il luogo dove essere ostetriche, ogni giorno. E la parola merito di per sé merita qualche osservazione ulteriore, al di là di ogni polemica. Se con merito intendiamo che lo scopo della scuola sia (nei confronti degli studenti) quello di selezionare i migliori, vuol dire che guardiamo con lenti sfuocate la ragione ultima dell’educazione.

Sarebbe persino troppo facile per un insegnante affidare alla sola valutazione il futuro di un giovane.

Il mestiere dell’insegnante ruota intorno alla sua appassionante capacità di rendere vivo ogni giorno quello che insegna e perché ciò avvenga vuol dire che latino, come filosofia, fisica o matematica, non possono essere semplici oggetti di valutazione ma devono essere soggetti per tessere dialogo con giovani che stanno facendo ricerca di sé. In questa ricerca emerge inevitabilmente la parte di merito propria di ciascun giovane, e la parte di loro che sarà determinante nelle sfide e nelle professioni future.

All’origine della parola merito c’è il verbo latino merere che significa guadagnare e ricevere la propria parte. Ma non tanto e non solo dal punto di vista economico. C’è in gioco molto di più. C’è in gioco una radice linguistica che contiene l’idea di avere un ruolo nella spartizione assegnata. E da questa radice, oltre a derivare merito deriva anche la moira, la parola greca del destino. A ciascuno dei nostri ragazzi (e di tutti noi, nell’ottica greca) è assegnata la propria porzione di vita da vivere pienamente.

È vero che questa porzione non è nelle nostre mani, ma nelle nostre mani è il senso che le diamo. La dobbiamo scoprire, è dal senso che sapremo darle che nascono le scintille di unicità di ciascuno. Se questo non avviene a scuola, in quale altro luogo può succedere? In quale altro luogo possiamo far tesoro del fatto che avere un fato non significa essere fatalisti, significa piuttosto imparare a mettersi in gioco, ragionare sulle difficoltà e gli eventuali insuccessi che lastricano il cammino di chiunque. Per far valere ciò che si è.

La scuola maneggia vita e deve dunque far sentire vivi i giovani che la abitano. Parafrasando James Hillman nel suo magnifico libro Il codice dell’anima (che si ispira a Platone, l’alunno più legato Socrate), la scuola deve far scoprire ai suoi giovani perché sono vivi, non la ragione per cui vivere. Questo è il vero merito della scuola.

D’altro canto conosci te stesso è l’altra pietra miliare che Socrate ha fatto sua, prendendola in prestito dall’oracolo di Delfi. Un imperativo facile all’apparenza ma che in realtà è il lavoro di una vita, il punto da cui partire per aprirsi all’altro e al mondo. La ricerca, in ultima analisi, è amore per se stessi e per la vita. E questo ogni insegnante lo sa bene.

Fonte: Cristina DELL’ACQUA | Corriere.it

 

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