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Perché il Papa in Bahrein

Il Bahrein, al di là di alcune iniziative positive promosse ufficialmente dallo stesso sovrano, non può essere portato a modello di libertà religiosa. Il Papa ha saputo districarsi in questo difficile mosaico, a cavallo tra Iran e Arabia Saudita, offrendo un nuovo contributo alla costruzione di un dialogo fraterno senza sincretismi

 

Il Regno del Bahrein è un arcipelago composto da 33 isole (in tutto 760 km²), posto tra la costa orientale dell’Arabia Saudita, il Qatar e la costa occidentale dell’Iran.

Deve il suo nome alla posizione geografica (Barhein significa: “posto fra due mari”), che ne determinano anche le difficoltà geopolitiche. Emirato nelle mani della dinastia al-Khalifa dalla fine del ‘700, diventa un regno nel 2002, con l’emanazione di una Costituzione che istituisce la monarchia, al momento nelle mani del re Hamad bin ‘Isa al-Khalif. Il potere è diviso fra la Camera bassa (Majlis al-nuwwab, l’Assemblea dei deputati), eletta a suffragio universale, e la Camera alta (Majlis al-shura, l’Assemblea della consultazione), i cui membri sono di nomina regia. Grande riforma voluta dal sovrano l’inserimento dell’elettorato passivo e attivo delle donne. Calata dall’alto con un certo atteggiamento “paternalistico”, è stata spesso oggetto di contestazione da parte del partito Wefaq, di obbedienza sciita, che nel 2011 ha fomentato la locale “primavera”, duramente repressa nel sangue, ma ha anche aperto una via più dialogica alla diplomazia del sovrano, senza tuttavia aprire la strada ad un processo di democratizzazione, tanto che lo stesso Wefaq dal 2014 è sottoposto a censura e non ha potuto partecipare alle ultime elezioni.

Il re vive nel perenne timore di un complotto guidato dall’Iran e volto alla destabilizzazione del suo regno, e questo lo costringe ad un ferreo legame con l’Arabia Saudita e gli USA, vista anche la sua posizione strategica nel Golfo: Riyad considera, infatti, il Bahrein il prolungamento naturale della provincia saudita orientale di al-Hasa, a maggioranza sciita, in cui si concentra la gran parte dei giacimenti petroliferi sauditi, zona fondamentale anche per garantire il regolare transito delle petroliere nello stretto di Hormuz. Gli Stati Uniti hanno posto sulle sue coste il quartier generale della V flotta della loro Marina, responsabile delle operazioni militari nel Mar Rosso, nel Golfo persico e nel Mare arabico. Per parte sua l’Iran rivendica da sempre il territorio del Bahrein, considerato la 14° provincia iraniana. Non si può, inoltre, dimenticare che il minuscolo Stato è il centro mondiale dell’Islamic Banking, punto di incontro di un’infinita catena di colossali scambi finanziari.

La sua popolazione è di circa 1.500.000 di abitanti, di cui circa 300.000 provenienti da diverse zone del mondo, soprattutto India, Filippine, Sri Lanka e Pakistan. Il 70% circa è musulmano – divisi fra sciiti, appoggiati da Iran e Iraq (65 -70%), e sunniti, protetti dall’Arabia Saudita (30-35%) – ma in verità si contano numerose obbedienze, che vanno dalla casa regnante malikita ai gruppi esuli di iraniani shafiiti, in maggioranza provenienti dall’Asia minore hanafita.

I non musulmani si dividono fra cristiani (circa 230.000, di cui 80.000 cattolici), indù, buddhisti e altro.

La Costituzione garantisce la libertà di culto, ma non la libertà religiosa, tanto che dichiara espressamente l’islam come religione di Stato e la shari’a come riferimento legislativo. La Costituzione, con gli articoli 9 e 10, ha introdotto multe e pene detentive «a chiunque offenda, mediante una qualsiasi forma di espressione, una delle religioni [o] confessioni riconosciute, o ne derida i riti» e per «chiunque insulti in pubblico un simbolo o una persona celebrata o considerata sacra dai membri di una particolare confessione». Tuttavia, ogni attività missionaria non musulmana è vietata con pene molto severe.  Per gli eventuali convertiti non sono previste punizioni da Codice penale,  ma le conseguenze sociali sarebbero molto pesanti: isolamento, perdita di diritti ereditari, riduzione dei diritti civili. Soprattutto viene imputata al governo una decisa discriminazione degli sciiti, anche se sono la maggioranza relativa della popolazione.

Le relazioni con i cristiani sono, tuttavia, buone e la Chiesa cattolica possiede una chiesa dedicata alla Madonna della Visitazione ad Awali (condivisa con protestati e anglicani) e un’altra a Manama, la capitale, dedicata al Sacro Cuore. Recentemente è stata inaugurata la chiesa dedicata a Nostra Signora d’Arabia su un territorio regalato dal sovrano stesso. Oggi è anche sede vescovile ed è la più grande chiesa del Medio Oriente.

In questo piccolo regno, ricco di contraddizioni e di problemi, il Santo Padre ha compiuto il suo viaggio dal 3 al 6 novembre, in occasione del Bahrain Forum for Dialogue: East and West for Human Coexistence. Nato sotto il patronato del sovrano Hamad bin Isa Al-Khalifa, il Forum vuole creare un non meglio precisato dialogo fra i leader di grandi e piccole religioni, movimenti, correnti di pensiero. E’ stato organizzato dal King Hamad Global Centre for Peaceful Coexistence, dal The Muslim Council of Elders e dal Supreme Council for Islamic Affairs (SCIA), in collaborazione con l’università egiziana di Al-Azhar e la Chiesa cattolica. Esperienza originale del piccolo regno del Golfo, che parla di dialogo, libertà, diritti con grande esposizione mediatica, ma dovrebbe anche guardare al proprio interno e, forse, fare un esame di coscienza.

Perché il Santo Padre, pur in precarie condizioni di salute, ha voluto partecipare a questa kermesse? Secondo mons. Paul Hinder, amministratore apostolico del Vicariato dell’Arabia del Nord, già in passato intervistato dalla sottoscritta per Alleanza Cattolica, il viaggio del Papa si colloca in continuità con le precedenti visite in territorio islamico, volte a trovare una «piattaforma nell’ambito della quale, senza compromettere le nostre convinzioni, possiamo formare comunità positive e costruttive per costruire il futuro e contribuire a salvare il mondo. Il dialogo a livello intellettuale o teologico non è facile, perché è difficile trovare un linguaggio comune. Come possiamo andare avanti e creare una base, senza rinunciare alla nostra identità?  Nessuno è interessato a una sintesi per metà musulmana e per metà cristiana. Vogliamo rimanere fedeli alle nostre tradizioni, ma possiamo fare di più per affrontare questioni vitali che riguardano tutta l’umanità».

Il 3 novembre, al suo arrivo ad Awali, il Pontefice ha incontrato il sovrano ed alcuni membri della sua famiglia, oltre a diversi esponenti politici. Nel cortese saluto che ha rivolto alle autorità, il Papa si è presentato come «seminatore di pace» e, cogliendo l’opportunità fornita dalla presenza di una grande acacia – che pare abbia centinaia di anni e sia considerata dalla tradizione locale “l’albero della vita” -, ha proseguito invitando ad apprezzare la ricchezza che «risplende nella sua varietà etnica e culturale, nella convivenza pacifica e nella tradizionale accoglienza della popolazione. Una diversità non omologante, ma includente, rappresenta il tesoro di ogni Paese veramente evoluto. E su queste isole si ammira una società composita, multietnica e multireligiosa, capace di superare il pericolo dell’isolamento». Forse consapevole che le dichiarazioni del Forum non corrispondono ad una realtà vissuta, ha affrontato con delicatezza il problema delle discriminazioni, auspicando che «la libertà religiosa diventi piena e non si limiti alla libertà di culto; perché uguale dignità e pari opportunità siano concretamente riconosciute ad ogni gruppo e ad ogni persona; perché non vi siano discriminazioni e i diritti umani fondamentali non vengano violati, ma promossi. Penso anzitutto al diritto alla vita, alla necessità di garantirlo sempre, anche nei riguardi di chi viene punito, la cui esistenza non può essere eliminata».

Partecipando alla cerimonia di chiusura del Forum il 4 novembre, il Santo Padre ha pronunciato un lungo discorso, ricco di spunti di riflessione rivolti ai presenti. Alla presenza del sovrano e dell’imam di al-Azhar, Ahmad al Tayyed, ha ricordato che «il nome “Bahrein” può aiutarci ancora a riflettere: i “due mari” di cui parla si riferiscono alle acque dolci delle sue sorgenti sottomarine e a quelle salmastre del Golfo. Similmente, oggi ci troviamo affacciati su due mari dal sapore opposto: da una parte il mare calmo e dolce della convivenza comune, dall’altra quello amaro dell’indifferenza, funestato da scontri e agitato da venti di guerra […]. Oriente e Occidente assomigliano sempre più a due mari contrapposti. Noi, invece, siamo qui insieme perché intendiamo navigare nello stesso mare, scegliendo la rotta dell’incontro anziché quella dello scontro, la via del dialogo indicata da questo Forum: “Est e ovest per la coesistenza umana”».

Per rendere concreto il suo intervento ha lanciato tre sfide, con riferimento al Documento per la Fratellanza umana: l’orazione, l’educazione e l’azione. Infatti «[…] la preghiera, l’apertura del cuore all’Altissimo è fondamentale per purificarci dall’egoismo, dalla chiusura, dall’autoreferenzialità, dalle falsità e dall’ingiustizia. Chi prega, riceve nel cuore la pace e non può che farsene testimone e messaggero; e invitare, anzitutto attraverso l’esempio, i propri simili a non diventare ostaggi di un paganesimo che riduce l’essere umano a ciò che vende, compra o con cui si diverte, ma a riscoprire la dignità infinita che ciascuno porta impressa». Ma perché questo possa realizzarsi «una premessa è indispensabile: la libertà religiosa».

La seconda sfida è l’educazione, punto di partenza fondamentale per la formazione delle nuove generazioni. L’educazione fa riferimento alla mente ed «È infatti indegno della mente umana credere che le ragioni della forza prevalgano sulla forza della ragione». «In concreto – ha continuato il Pontefice – vorrei sottolineare tre urgenze educative. In primo luogo, il riconoscimento della donna in ambito pubblico: nell’istruzione come nel lavoro e nei diritti sociali e politici […] l’educazione è la via per emanciparsi da retaggi storici e sociali contrari a quello spirito di solidarietà fraterna che deve caratterizzare chi adora Dio e ama il prossimo»; poi «la tutela dei diritti fondamentali dei bambini» che hanno il diritto di crescere sereni e non stretti dai morsi della fame onella violenza. «Educhiamo – ha proseguito il Papa – ed educhiamoci, a guardare le crisi, i problemi, le guerre, con gli occhi dei bambini: non è ingenuo buonismo, ma lungimirante sapienza, perché solo pensando a loro il progresso si specchierà nell’innocenza anziché nel profitto, e contribuirà a costruire un futuro a misura d’uomo».

L’educazione che nasce nella famiglia ma cresce nella comunità civile ha bisogno anche della «educazione alla cittadinanza, al vivere insieme, nel rispetto e nella legalità». E la cittadinanza ha bisogno di eguaglianza di diritti e di doveri.

L’ultima sfida è quella dell’azione. «Chi è religioso…con forza dice “no” alla bestemmia della guerra e all’uso della violenza. E traduce con coerenza, nella pratica, tali “no”. Perché non basta dire che una religione è pacifica, occorre condannare e isolare i violenti che ne abusano il nome. E nemmeno è sufficiente prendere le distanze dall’intolleranza e dall’estremismo, bisogna agire in senso contrario».

Con grande realismo e coraggio, il Santo Padre ha fatto allusione al molto discusso finanziamento da parte dei Paesi del Golfo a diverse forme di radicalismo religioso ed ha sottolineato che «è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni».

Papa Francesco ha poi incontrato con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, i Membri del Muslims Council of  Elders presso la Moschea del Sakhir Royal Palace. In questa occasione ha fatto riferimento a un detto del quarto successore del Profeta Muhammad, il suo cugino e genero, Alī ibn Abī Tālib: «Le persone sono di due tipi: o tuoi fratelli nella fede o tuoi simili nell’umanità». Pur potendo trovare citazioni analoghe in centinaia di cristiani, il riferimento al califfo “ben guidato ‘Ali”, sulla cui delicata legittimità di successione a capo della comunità nascono gli sciiti, ritengo abbia avuto un significato politico: gli sciiti, che sono la maggioranza in Bahrein, lamentano continue discriminazioni sociali, politiche ed economiche e, partendo da loro, il Papa ha esortato a guardare con occhio sincero alla radice dei drammi odierni. «Cari amici, fratelli in Abramo, credenti nel Dio unico, i mali sociali e internazionali, quelli economici e personali, nonché la drammatica crisi ambientale che caratterizza questi tempi e sulla quale qui oggi si è riflettuto, provengono in ultima analisi dall’allontanamento da Dio e dal prossimo. Noi, dunque, abbiamo un compito unico e, imprescindibile, quello di aiutare a ritrovare queste sorgenti di vita dimenticate, di riportare l’umanità ad abbeverarsi a questa saggezza antica, di riavvicinare i fedeli all’adorazione del Dio del cielo e agli uomini per i quali Egli ha fatto la terra», ha infatti detto.

Sempre il 4 novembre, l’incontro con le comunità cristiane e con il Patriarca Bartolomeo I, presso la Cattedrale di Nostra Signora d’Arabia, è stato l’occasione per richiamare il bisogno di essere uniti sotto la guida dello Spirito Santo come erano uniti gli Apostoli nel giorno di Pentecoste. L’unità nella preghiera per avere la forza della testimonianza, quanto mai necessaria di fronte alle sfide del mondo di oggi.

Sabato 5 novembre, dopo la celebrazione della S. Messa allo stadio, il Papa ha incontrato i giovani, cattolici e non, presso la Scuola del Sacro Cuore ad Awali e ha rivolto loro un triplice invito. In primo luogo «abbracciare la cultura della cura […] E come si fa a curare il cuore? Provate ad ascoltarlo in silenzio, a ritagliare spazi per stare a contatto con la vostra interiorità, per sentire il dono che siete, per accogliere la vostra esistenza e non farvela sfuggire di mano. Non vi accada di essere “turisti della vita”, che la guardano solo all’esterno, superficialmente». Aver cura come Gesù ha sempre avuto cura di tutti coloro che lo avvicinavano, dei suoi amici e anche di coloro che lo criticavano. L’aver cura è avere a cuore la persona altrui e quindi «seminare fraternità».

Il Papa riprende le parole di un giovane, Abdullah:  «Bisogna essere campioni non solo nei campi da gioco, ma nella vita» e quindi invita tutti ad essere «campioni fuori dal campo. È vero, siate campioni di fraternità, fuori dal campo! Questa è la sfida di oggi per vincere domani, la sfida delle nostre società, sempre più globalizzate e multiculturali. Vedete, tutti gli strumenti e la tecnologia che la modernità ci offre non bastano a rendere il mondo pacifico e fraterno».

I giovani vengono invitati ad essere seminatori di fraternità per essere «raccoglitori di futuro, perché il mondo avrà futuro solo nella fraternità! È un invito che trovo al cuore della mia fede. “Chi […] non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1 Gv 4,20-21). Sì, Gesù chiede di non slegare mai l’amore per Dio da quello per il prossimo, facendoci noi stessi prossimi di tutti (cfr Lc 10,29-37). […] E voi giovani – soprattutto voi –, davanti alla tendenza dominante di restare indifferenti e mostrarsi insofferenti agli altri, addirittura di avallare guerre e conflitti, siete chiamati a “reagire con un nuovo sogno di fraternità […]”». «In voi giovani è vivo il desiderio di viaggiare, conoscere nuove terre, superare i confini dei soliti posti. Vorrei dirvi: sappiate viaggiare anche dentro di voi, allargare le frontiere interiori, perché cadano i pregiudizi sugli altri, si restringa lo spazio della diffidenza, si abbattano i recinti della paura, germogli l’amicizia fraterna! Anche qui, lasciatevi aiutare dalla preghiera, che allarga il cuore e, aprendoci all’incontro con Dio, ci aiuta a vedere in chi incontriamo un fratello e una sorella».

Prima del commiato, un’ultima sfida: fare le scelte giuste. «Lo sapete bene, dall’esperienza di ogni giorno: non esiste una vita senza sfide da affrontare. E sempre, di fronte a una sfida, come davanti a un bivio, bisogna scegliere, mettersi in gioco, rischiare, decidere. Ma questo richiede una buona strategia: non si può improvvisare, vivendo solo di istinto o solo all’istante!». Occorre «fare delle scelte nella vita, scelte giuste». Da buon gesuita, ripete il consiglio di cercarsi un direttore spirituale, perché non si può camminare da soli, occorre sempre essere accompagnati da qualcuno: dai genitori, dagli educatori e soprattutto da una continua e profonda intimità con Dio, che parla nel silenzio e nel profondo del cuore dell’uomo.

L’unione con Dio e lo spirito di unione viene ripreso anche durante l’Angelus (non la S. Messa, celebrata solo in privato) di domenica 6 novembre, recitato nella capitale Manama e già sintetizzato da Michele Brambilla su questo sito.

Questo piccolo Paese, il Barhein, ricco di contraddizioni, di problemi umani e sociali, in tre giorni è stato sommerso di aspettative, auspici, inviti, ammonimenti. Se non può certo considerarsi un modello di democrazia e rispetto dei diritti umani, almeno per qualche momento è stato modello di speranza (o di utopia?).

Fonte: Silvia Scaranari | AlleanzaCattolica.org

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