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I giovani italiani. Quali richieste alle istituzioni e alla classe politica.

“Per valorizzare il capitale umano delle nuove generazioni – secondo Alessandro Rosina, coordinatore del “Rapporto Giovani 2022” dell’Istituto Toniolo – non va sprecata l’occasione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnnr)”. Dall’indagine emerge che più del 60 per cento degli italiani tra i 18 e i 34 anni vuole un nuovo modello economico che unisca “inclusività, sostenibilità sociale e ambiente, valorizzazione delle diversità”.

L’Italia che tra 40 giorni è chiamata a scegliere chi la guiderà nella ripresa dopo i difficili anni della pandemia e darà corpo ai progetti ambiziosi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnnr), finanziato dall’Unione europea, deve mettere al centro “la valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni” e delle competenze dei giovani per la transizione digitale e verde. Giovani italiani che per oltre il 60 per cento hanno maturato “una visione dell’economia che inglobi inclusività, sostenibilità sociale e ambiente, valorizzazione delle diversità”. Molto vicino al nuovo modello di sviluppo economico proposto da “Economy of Francesco”.

Interviste a giovani dai 18 ai 34 anni tra aprile 2021 e gennaio 2022

E’ quello che emerge dal Rapporto Giovani 2022 dell’Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori, l’ente fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Si tratta dell’edizione numero nove dell’indagine sulla condizione giovanile in Italia curata dall’Osservatorio Giovani del Toniolo, nato nel 2011, e coordinato da Alessandro Rosina, che ha partecipato come esperto al Sinodo dei giovani del 2018. I dati del Rapporto sono stati raccolti in quattro indagini con interviste, tra l’aprile 2021 e il gennaio 2022, due su un campione di giovani dai 18 ai 34 anni di Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna e due su giovani italiani.

“I giovani devono vedere che l’Italia scommette su di loro”

Dopo il 2021 che è stato “l’anno della progettazione della nuova fase di sviluppo del Paese dopo l’impatto inedito e inatteso della pandemia – spiega Rosina nell’introduzione – il 2022 segna l’inizio di una nuova fase”. E per non vanificare le tante speranze e aspettative suscitate dal Pnrr e dalle risorse che l’Unione Europea, attraverso il fondo Next Generation Eu, ha destinato alla ripresa dell’Italia, aggiunge, “non si tratta di riprendere il percorso precedente, ma cogliere l’occasione per mettere le basi di un nuovo progetto di Paese”. Che non sia preoccupato tanto della crescita del Pil, ma della “qualità dell’occupazione creata” e della crescita “degli indicatori di benessere e sviluppo sostenibile”. Devono soprattutto migliorare “le condizioni delle nuove generazioni” e i giovani devono percepire “di vivere in un Paese che scommette su di loro”, considerando le loro “competenze, sensibilità e capacità il carburante principale per alimentare una nuova fase di crescita”.

 

La scuola, i nuovi lavori, le nuove famiglie e la partecipazione sociale

Il Rapporto Giovani 2022, presenta nella prima parte i quattro fronti su cui si giocano le sorti di una ripresa che possa far leva sulle intelligenze, le energie e la vitalità delle nuove generazioni: le nuove modalità di formazione e le nuove competenze; i nuovi lavori; i nuovi nuclei familiari; le nuove forme di partecipazione sociale. Nella seconda parte si approfondiscono condizione e aspettative delle categorie alle quali il Pnrr si rivolge: oltre ai giovani, le donne, chi vive al Sud e nelle aree economicamente meno dinamiche del Paese. Si aggiunge un focus sulla componente straniera e immigrata, “alla quale il piano del governo riserva un’attenzione marginale”. Infine, un approfondimento alla realtà dei giovani e alle politiche che li riguardano in Spagna.

Il tasso di occupazione più basso per i giovani tra 25 e 29 anni

Visti i dati drammatici sull’attuale occupazione giovanile in Italia, che è l’unico Paese dell’Unione Europea con un tasso di occupazione dei giovani tra i 25 e i 29 anni sotto il 60 per cento, e dove è concentrato sotto i 35 anni il rischio di avere un reddito di lavoro basso e di non svolgere un’attività adeguata al proprio titolo di studio, i giovani vanno messi nelle condizioni di “accedere ad un lavoro di qualità e abilitante”. E lo meritano anche per i molti segnali che confermano la loro voglia di protagonismo positivo nella società, come la partecipazione “a movimenti a favore dell’ambiente e contro il riscaldamento globale”.

Crescono i lavori “green” e l’attenzione dei giovani per l’ambiente

Nel capitolo dedicato alla risorsa scuola, si sottolinea il dato del 20 per cento di giovani “che sentono un basso coinvolgimento verso l’impegno scolastico”. Una risposta può venire dal miglioramento dell’efficacia ed efficienza dei servizi formativi, di cui si occupa la missione 4 del Pnnr, ma anche da un “modo nuovo di intendere il curricolo scolastico, il percorso formativo e il ruolo dell’insegnante”. Il secondo capitolo, che si occupa di come i giovani vedono le opportunità lavorative legate alla “green economy” e allo sviluppo sostenibile, sottolinea la crescita dei contratti di lavoro “green”, che a fine 2020 rappresentano il 35 per cento delle nuove assunzioni. E anche nei giovani cresce l’attenzione alle tematiche ambientali e di sviluppo sostenibile: dalle interviste emerge come tendano a preferire, come datore di lavoro,  “aziende socialmente responsabili, attente e impegnate in campo ambientale”.

Rosina: ci chiedono di non tornare all’Italia pre-pandemia

Purtroppo, analizzando il Pnrr, i ricercatori del Toniolo fanno notare che non è prevista una missione autonoma dedicata ai giovani, ma misure frammentate in diverse missioni, e questo crea “qualche rischio sulla destinazione delle risorse effettivamente in loro favore” e complica anche “il monitoraggio e la valutazione di impatto” delle misure stesse. Nell’ampia intervista di presentazione del Rapporto, il coordinatore dell’Osservatorio Giovani Alessandro Rosina, che è anche docente di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, fa notare come oggi i giovani chiedano a chi governerà l’Italia dopo le elezioni, “di non tornare all’Italia pre-pandemia, che faticava a crescere e non cercava opportunità all’altezza delle loro potenzialità”. Ma di “mettere al centro le loro nuove sensibilità, come quelle verso l’ambiente e le loro competenze avanzate nella transizione digitale e verde, e nell’innovazione sia tecnologica che sociale. Vogliono sentirsi riconosciuti come nuovo di valore e che viene messo nelle condizioni di generare nuovo valore”. Altrimenti, “andranno all’estero”.

Il volontariato, esperienza che dona competenze sociali

Riguardo al quarto capitolo dedicato al rapporto tra giovani e volontariato, Rosina sottolinea il loro bisogno “di esperienze individuali positive” nella solidarietà sociale, per rispondere alla “grande esperienza collettiva negativa che è stata la pandemia”, e per sentirsi “attivi e positivi” all’interno del territorio. Servirebbe però una certificazione delle competenze sociali e “life skill” acquisite nel volontariato, come riscontro della positività della loro esperienza e per superare “fragilità e insicurezze”.

Dal Rapporto Giovani 2022 emerge che i giovani italiani ripongono molte speranze nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), che però non ha misure specifiche per valorizzare il loro contributo nella costruzione dell’Italia del futuro, ma tante iniziative frammentate, dalla scuola al lavoro per gli under 30. Perché per voi è importante che un futuro governo faccia una revisione del Pnrr su questo?

E’ molto importante che i giovani italiani vedano che inizi davvero una nuova fase di sviluppo del Paese, che metta al centro la formazione e la capacità di essere e fare delle nuove generazioni, anche con competenze nuove e nuove sensibilità che entrano nel mondo del lavoro, e che portino poi ad una piena valorizzazione di queste. Perché poi i giovani sono sempre di meno nel nostro Paese, come conseguenza della denatalità, e ne abbiamo di meno rispetto agli altri Paesi. Eppure li valorizziamo di meno, perché è più alta la percentuale di “neet”, giovani che non studiano e non lavorano. Quindi ne abbiamo di meno e ne sprechiamo di più. E poi scarsi sono stati finora gli investimenti sulla transizione scuola-lavoro. Questa consapevolezza nei giovani è molto chiara: quando si confrontano con i coetanei europei, e i dati dell’Osservatorio Giovani ben lo confermano, vedono meno opportunità in Italia per trovare lavoro. E vedono soprattutto un Paese che crede di meno nella possibilità di crescita e sviluppo, proprio a partire da un investimento che metta le nuove generazioni nella condizione di essere parte attiva di un Paese che cambia e migliora con loro. Ora, tutto questo i giovani lo vorrebbero vedere in maniera chiara nel Pnrr, e invece trovano misure che li riguardano, ma molto disperse, a volte sconnesse tra loro. Misure che non consentono di vedere chiaramente se il Paese ha un piano di sviluppo che mette al centro, in maniera coerente, l’investimento sulle nuove generazioni e poi si impegna ad implementarlo e infine a misurare l’impatto che questi investimenti e misure hanno.  E’ vero che l’impegno a controllare, anche attraverso indicatori adeguati, se e come i provvedimenti che riguardano i giovani vengono realizzati, è uno dei fronti sui quali il governo si era impegnato. Sarà perciò interessante vedere se e come questo impegno sarà concretizzato, perché sarà importante capire poi la realizzazione effettiva, sul territorio, di queste misure. Perché i giovani hanno bisogno di vedere poi se queste politiche effettivamente migliorano la loro condizione. E vanno poi, anno dopo anno, ad orientare il percorso di sviluppo del Paese, migliorando tutto quello che consente a loro di dare il meglio di sé.

Il nuovo governo uscirà dalle elezioni del 25 settembre. Nelle dichiarazioni e nei programmi dei partiti, cosa c’è finora per migliorare la condizione dei giovani in Italia?

Oggi è difficile vederlo, perché i programmi non sono ancora ben definiti. Però il timore è che si torni a fare grandi promesse, come sempre ad ogni elezione. Nel momento in cui c’è da ottenere il consenso dei giovani, questi tornano al centro e sono di interesse per la politica. Ci si spende molto nel cercare di proporre azioni che vadano incontro alla loro sensibilità e quindi si mette al centro l’ambiente e la questione della qualità del lavoro, la formazione. Il problema è quando finisce la tornata elettorale, inizia il governo e i temi della campagna elettorale che riguardavano i giovani vanno a finire troppo spesso in secondo piano. Quindi, serve un impegno che metta proprio i giovani al centro e che movimenti e partiti credano nella possibilità di sviluppo del Paese, a partire proprio da un modello di sviluppo e sociale nel quale le nuove generazioni sono parte attiva. E che attorno a questo modello poi costruiscano il loro programma e non il contrario, cioè all’interno di programmi e di misure che cercano di ottenere il consenso dell’elettorato in generale, poi mettere in luce specifiche parti che riguardano i giovani. Serve proprio un approccio diverso, una prospettiva diversa, perché da troppo tempo i giovani sono ai margini e questo non aiuta il Paese a crescere e ad interpretare al meglio le grandi sfide che ha davanti. Che riguardano le trasformazioni demografiche, la transizione digitale, la transizione verde: sono tutte sfide che vanno vinte rafforzando i percorsi dei giovani, le loro competenze, e poi valorizzandole pienamente. Quindi diventa proprio un’impostazione nuova per un Paese che, grazie alla leva del capitale umano dei giovani, coglie e cerca di vincere le sfide del proprio tempo.

Interrogati da voi sul lavoro che vorrebbero, i giovani del 2022 chiedono alle imprese prima di tutto benessere per i lavoratori, sensibilità ambientale e onestà. Questo significa che la spinta verso la “green economy” e un nuovo modello economico è ormai irreversibile, anche nel nostro Paese?

Questo è quello che chiedono i giovani, cioè un modello economico nuovo e che non si torni a quella che era l’Italia prima dell’impatto della pandemia. Perché era un Paese che faceva fatica a crescere e che non creava opportunità all’altezza delle potenzialità dei giovani. Con troppi giovani che dovevano rivedere al ribasso le proprie aspettative riguardo non solo al lavoro, ma anche ai progetti di autonomia dalla famiglia d’origine, di formazione della propria famiglia e di valorizzazione piena poi nel mondo del lavoro. Per questo vorrebbero vedere invece un salto di qualità, con un nuovo percorso di sviluppo del Paese, dopo la discontinuità della pandemia. Quindi chiedono di non tornare assolutamente indietro e mettere invece al centro le loro sensibilità nuove, come quella verso l’ambiente, e le loro competenze avanzate nella transizione digitale e nell’innovazione sia tecnologica che sociale. Vogliono sentirsi riconosciuti come nuovo di valore e che viene messo nelle condizioni di generare nuovo valore. E questo nuovo valore deve poter trovare possibilità di espressione in un’Italia nuova, in un percorso nuovo di sviluppo. Serve quindi interpretare questi tempi: la sfida ambientale e quella dell’innovazione tecnologica vanno pienamente colte e i giovani vogliono che questo consenta di creare nuove opportunità, nelle quali loro siano pienamente inseriti. Diventa allora fondamentale investire sulla qualità del lavoro, su ricerca, sviluppo e innovazione e sull’apertura anche di nuove opportunità che vedano poi l’intraprendenza e le idee dei giovani diventare protagonisti positivi di un nuovo sviluppo, inclusivo e sostenibile. Rispetto a questo non sono disponibili a tornare indietro, semmai se trovano ostacoli e possibilità bloccate per andare in avanti, piuttosto se ne andranno all’estero.

Un settore analizzato nella vostra indagine è quello dei giovani e il volontariato. Emerge che la pandemia per molti ha cambiato le priorità ed ha convinto più giovani a sporcarsi le mani per il bene comune. Perché sarebbe importante per loro che venissero certificate le competenze sociali acquisite grazie all’impegno nel volontariato?

Il tema del volontariato, dell’impegno sociale e civile è molto importante per i giovani, perché consente di rafforzare quelle competenze sociali e “life skills” (l’insieme delle abilità sociali, cognitive e personali per affrontare le sfide della vita quotidiana, ndr) che si sono ridotte fortemente durante i due anni della pandemia. Questo noi l’abbiamo misurato sul rapporto giovani 2022 e i dati dicono che purtroppo in tutte le dimensioni del benessere e delle competenze sociali, c’è stato un forte impoverimento ed erosione all’energia anche positiva che i giovani possono mettere a disposizione e alle competenze sociali sulle “life skills”. E quindi hanno bisogno di esperienze individuali positive che rispondano a questa grande esperienza collettiva negativa che è stata la pandemia. E hanno bisogno, però, anche di continui feedback, di riscontri che quello che stanno facendo produce valore per loro, nel contesto in cui operano. Per sentirsi soggetti positivi all’interno del territorio. Essere “neet”, i giovani che non studiano e non lavorano, li spinge verso una condizione di marginalità che va poi a depotenziare la fiducia in sé stessi, nei confronti del futuro, il senso di partecipazione sociale. Mentre l’impegno nel volontariato fa proprio il contrario, cioè li fa sentire attivi in qualcosa che è utile e non si sentono, quindi, soggetti svantaggiati. Non si sentono come il problema del Paese, ma come la soluzione, cioè ciò che consente poi alla realtà in cui operano, di poter migliorare grazie al loro contributo. E di questo però hanno bisogno, anche di avere riscontri continui, per superare anche il rischio di fragilità e di insicurezza che è stato accentuato dalla pandemia. E la certificazione delle competenze li aiuta ad avere questo riscontro esterno, cioè di aiuto anche a riconoscere come questa esperienza è stata positiva, li rafforza e li aiuta quindi anche a migliorare all’interno di un circuito virtuoso di imparare e fare. E mettersi in gioco con la realtà, che poi li aiuta a trovare fiducia in sé stessi, e competenze utili che poi oltre a essere rafforzate nel servizio civile, nel volontariato, potranno anche essere spendibili nel mondo del lavoro o, più in generale, nel loro percorso di vita.

Avete dedicato un capitolo del Rapporto giovani 2022 anche alle opinioni delle nuove generazioni sull’immigrazione. La politica italiana dovrebbe tener conto del fatto che la generazione tra i 18 e il 24 anni è più aperta e sensibile al tema, anche alla concessione della cittadinanza ai figli di immigrati che abbiano studiato in Italia?

Questo è un atteggiamento che ormai si è consolidato nel tempo e che da vari anni noi verifichiamo. I giovani italiani ormai, soprattutto quelli della Generazione Z, che sono cresciuti in questo secolo, si sono sempre confrontati, nelle aule di scuola, con coetanei che hanno genitori immigrati e che sono nati in Italia o che sono arrivati in età anche molto giovane. E li considerano esattamente come qualsiasi altro coetaneo, non vedono la differenza. Dovrebbe anzi essere una generazione che è aiutata a formare competenze interculturali, cioè a riconoscere le diversità, a fare in modo che ciascuno consenta alla propria diversità di trasformarsi in valore e questo valore posso essere condiviso. E questa è esattamente una delle competenze che saranno importanti anche in futuro, perché anche all’interno del mondo del lavoro, il confronto tra diversità è sempre più importante. Le collaborazioni all’interno di team di ricerca, di sviluppo ma anche di lavoro che sono in grado di far stare assieme competenze diverse, sono quelle che hanno maggior successo. E quindi questo deve diventare un riconoscimento che fa in modo che la diversità non sia marginalizzazione, ossia esclusione. Quindi, proprio per questo, i giovani non ritengono che i coetanei con background di immigrazione non siano cittadini italiani. Per loro naturalmente lo sono, come lo sono essi stessi e quindi vedrebbero, nella maggioranza dei casi, del tutto naturale, ad esempio, lo “Ius scholae”, cioè la possibilità che chi cresce in Italia, frequenta le scuole in Italia e mette impegno nel formarsi e nel sentire come parte di sè la cultura italiana, possa avere la possibilità di sentirsi pienamente cittadino italiano ed essere riconosciuto anche dal punto di vista formale. E purtroppo invece è la politica dall’alto che frena, invece, la possibilità che questo percorso virtuoso possa pienamente realizzarsi.

Fonte: Alessandro DI BUSSOLO interv. Alessandro ROSINA, | Vatican News.va

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