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Edgar Morin: «Sull’Ucraina dico che è venuto il momento di trovare un compromesso»

Edgar Morin, filosofo della complessità e uno degli intellettuali europei — francese di nascita, con ascendenze greche, ebraiche, livornesi — più influenti e politicamente impegnati del secolo scorso e dell’attuale, conclude così mezz’ora di conversazione via zoom sul pacifismo di ieri e di oggi. 101 anni compiuti giorni fa che hanno lasciato intatta la sua chiarezza di pensiero, di parola, di sguardo, Morin risponde dalle Isole Canarie dove trascorre l’estate.

Per lui, sottolinea, nessun paragone è possibile tra l’idea pacifista radicata nell’Europa dei suoi anni giovanili, sorta di «religione civile» in particolare per la sinistra che è sempre stata il suo campo, e quanto accade oggi in Ucraina. «Il pacifismo di allora scaturiva dalla tragedia della Prima guerra mondiale, che seminò soprattutto nella sinistra la convinzione profonda, assoluta che un’altra carneficina così andasse evitata a qualunque prezzo. Moltissimi intellettuali erano pacifisti, pacifisti ‘integrali’. Fu l’antifascismo a mettere in crisi il pacifismo. Ricordo in Francia la vicenda di un gruppo importante, il Comité de vigilance des intellectuels antifascistes: era diretto da pacifisti e rimase pacifista fino alla guerra, molti antifascisti nel corso degli anni lo abbandonarono.

Tutto cominciò a cambiare dal 1933 con l’arrivo al potere di Hitler: la rimilitarizzazione della Renania e poi la guerra di Spagna indebolirono molto le posizioni pacifiste. Ma fino alla guerra un certo numero di intellettuali e anche di politici di sinistra rimasero pacifisti ‘integrali’. In Francia alcuni di loro finirono per collaborare con il regime di Vichy, accettando la prospettiva di una dominazione nazista su tutta l’Europa, altri come Jean Giono continuarono a testimoniare il loro pacifismo assoluto senza mai scendere a patti con i nazisti».

Continua Morin: «Quando ero adolescente mi sentivo anch’io pacifista, credevo che si dovesse fare di tutto per evitare la guerra. Poi nel ’41, avevo vent’anni, quando ci fu l’attacco tedesco contro l’Unione Sovietica entrai nella Resistenza. Non vedo legami tra quelle vicende e l’attualità ucraina, e quanto a me non mi sento più pacifista ma rifiuto il bellicismo e coltivo la speranza di una pace di compromesso nei termini obiettivamente possibili.

Oggi non c’è un vero movimento pacifista. Ci sono, sì, “partigiani” di una pace tra la Russia e l’Ucraina, ma sono voci disperse e rese pressoché silenziose dal fatto che i media hanno plasmato nell’opinione pubblica un sentimento di solidarietà totale con l’Ucraina, di demonizzazione della Russia. Anche a buon diritto, perché Putin è un dittatore e l’invasione russa porta lutti e distruzioni. Io però penso che bisogna tanto fermare i massacri degli ucraini, quanto scongiurare un allargamento di questa guerra che è già una guerra internazionale sebbene combattuta entro le frontiere dell’Ucraina. È come se fossero due guerre in una: quella di resistenza dell’Ucraina che difende la sua sovranità, e poi un conflitto molto più grande tra Russia e Stati Uniti. Penso anche che questa guerra tiri fuori il peggio da entrambi i campi: rafforza sia il carattere dispotico del regime di Putin sia l’ultranazionalismo di una parte degli ucraini, mi viene in mente la proibizione della letteratura e della musica russe. Insomma, più la guerra durerà e più farà disastri».

E l’Europa? «L’Europa fa bene a sostenere la resistenza ucraina, a sostenerla finanziariamente e anche militarmente. Ma dovrebbe impegnarsi al tempo stesso in un’azione mediatrice, non può lasciare questo ruolo alla Turchia guidata da un regime non proprio raccomandabile. Serve una pace di compromesso: che garantisca sia l’indipendenza che la neutralità dell’Ucraina e ne consenta l’integrazione nell’Unione europea, e che preveda uno statuto autonomo, stabilito attraverso referendum, per le province a maggioranza russofona del Donbass che furono “russificate” ai tempi dell’industrializzazione dell’Urss. Le condizioni oggettive per un compromesso così ci sarebbero tutte, manca la volontà soggettiva di perseguirle com’è mancata, anche da parte europea, la capacità di vedere già dopo la ribellione filorussa del 2014 nel Donbass — allora ne scrissi — che stava esplodendo un grande problema».

Queste per lei le condizioni di una «pace giusta». Ma una «guerra giusta» può esistere? «Mi viene in mente la guerra bosniaca di oltre vent’anni fa, con la Serbia e anche la Croazia che inseguivano disegni di pulizia etnica. Io non ero allora antiserbo come non sono oggi antirusso, ho sempre avuto rispetto e simpatia per il popolo serbo ma era giusto intervenire militarmente contro la Serbia a difesa dei musulmani di Bosnia e dell’idea di una Bosnia multietnica. Andai a Sarajevo durante l’assedio serbo, la guerra in Bosnia mi scosse profondamente. Dunque sì, penso che possa esistere una guerra giusta, ma senza mai dimenticare che qualunque guerra porta ingiustizia.

Fonte: FrancescoMacrìBlog.it

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