La riflessione di Mariolina Cerotti Migliarese (
“Avvenire”, 21 novembre) sul rapporto tra la vecchiaia e la morte va ripresa. E forse è bene anche prolungarla. Anche perché – a differenza del passato – il volto della morte oggi è quello degli anziani. Lo notava già Paul Yonnet, noto sociologo francese: «Oggi la morte è al centro della vecchiaia, perché i decessi sono, in maggior parte, decessi di persone anziane. Non era mai stato così, e si può dire che, nella storia dell’umanità, l’età anziana dei morti è un fenomeno molto recente, che si è potuto osservare, con carattere di generalità nel XX secolo in Europa o nei paesi sviluppati». È urgente perciò sollecitare un cambiamento di paradigma che a mio avviso ha i tratti di una vera e propria rivoluzione culturale. È indispensabile cambiare sia l’idea sulla vecchiaia che purtroppo continua ad essere intesa come un’età da scarto, come un naufragio, un tristissimo tramonto. No, la morte non è la fine. È piuttosto un passaggio. Ma lo approfondiremo. Ora vorrei fermare l’attenzione sulla vecchiaia intendendola come un tempo alto, prezioso, importante. Che tristezza quella cultura che vede il vecchio come un perdente! E che sconfitta, anche. Finché i vecchi erano poche migliaia poteva anche starci l’idea dello scarto, ma di fronte a milioni e milioni di scarti, diventa una tragedia davvero insopportabile. Come lo è questa affermazione di Baudrillard: «La Terza Età esprime bene ciò che vuol dire: è una specie di Terzo Mondo». Se non correggiamo questa crudele convinzione, che ne è di noi anziani, oggi? e come le giovani generazioni guarderanno il loro futuro se il nostro lo percepiscono come un naufragio? È una responsabilità che noi anziani di oggi dobbiamo sentire con maggiore consapevolezza.
È sempre più evidente il bisogno di ripensare la vecchiaia. Già da ora. Anzi, di inventarla e considerarla almeno come una delle tappe della vita che, appunto, come le altre, ha le sue gioie e i suoi dolori. Però andrei anche oltre. E vorrei suggerire al lettore un punto cruciale: la vecchiaia dona ai vecchi la missione di aiutare sé stessi e quindi anche le generazioni che salgono a guardare l’Oltre. Sì, l’Oltre la morte! Noi vecchi potremmo somigliarci a Mosè sul monte Nebo – il monte dei nostri anni – dal quale il Signore «mostrò tutta la terra… Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo» (Dt 341.4). Certo, a differenza di Mosé, che vide la terra da lontano ma non vi poté entrare, il nostro sguardo – per la grazia di Gesù risorto – è pieno di speranza: l’attesa della terra nuova che il Signore ci dona da abitare è più concreta. Noi vecchi sappiamo che la prossima tappa per noi – quella che ci porta verso la terra definitiva -, è la morte, quella nostra. E sono chiare le parole dell’apostolo Paolo ai Corinzi, «convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi… Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno… Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2Cor 4, 14; 5,1).
L’apostolo ci suggerisce la visione che ci aspetta. Ma dobbiamo levare la “tenda” del nostro uomo terrestre, per ricevere l’abitazione eterna da Dio stesso. Il passaggio della morte non possiamo eluderlo. Ma va compreso meglio anche nella terribile realtà di dolore, di distacco che porta con sé. È bene – anzi indispensabile e urgente – parlarne. Ma, capite: il meglio deve ancora venire! Torniamo a noi vecchi, ora. Certo, siamo più fragili e saremo sempre più dipendenti dagli altri. Ma la fragilità, condizione comune a tutti, se compresa, può diventare persino una “forza”. Noi anziani soprattutto dobbiamo dimettere l’ossessione giovanilista, quella di produrre, di godere, di durare, di possedere, di competere, come se la vita non sia altro e noi niente più di questo. La vita cresce e si sviluppa in un altro modo, dentro di noi e fuori di noi: e va oltre la morte, verso il compimento. Se non comprendiamo questo, facilmente invecchieremo male. Dobbiamo comprendere – anche secondo una prospettiva sociologica e culturale oltre che spirituale – il valore dell’uomo e della donna che invecchiano nel contesto della società contemporanea. Romano Guardini avvertiva già nell’altro secolo: «La comunità deve da parte sua dare a chi diventa vecchio la possibilità di invecchiare nel modo giusto, perché questo, solo in parte dipende da lui, per il resto dell’eventualità che chi gli è vicino, la famiglia, gli amici, ma anche, andando oltre, il contesto sociale, il comune, lo stato, gli diano le condizioni di vita che egli stesso non è in grado di darsi». Ma anche noi anziani dobbiamo avere una nuova consapevolezza: la vecchiaia è una stagione della vita che, come le altre, ha un suo proprio volto, una sua propria atmosfera, sue proprie gioie e proprie miserie. Certo è che bisogna dare senso ai lunghi anni che ci portano al compimento della vita che passa attraverso la morte, ma non è annullata. Diceva bene Hannah Arendt: «Non siamo fatti per morire, ma per nascere».