La terza età ci coglie sempre impreparati. E attiviamo molte difese, spesso disfunzionali. Invece questo tratto di vita può essere un periodo di crescita, nella relazione con l’altro
Pensare all’attesa ci porta a interrogarci anche sull’invecchiamento, fase della vita in cui il tempo prende un modo diverso di avanzare, perché ci avvicina all’ignoto. Qual è il momento in cui diventiamo vecchi? È difficile rispondere a questa domanda. La vecchiaia ci coglie sempre un po’ all’improvviso; non ci accorgiamo di invecchiare, ma ci accorgiamo piuttosto di essere diventati vecchi: di essere entrati in una dimensione in cui il senso del tempo si modifica, il passato si schiaccia su se stesso e il futuro si accorcia. Come ha scritto recentemente il Cardinale Scola, la vecchiaia «…mi è venuta addosso con un’accelerazione improvvisa e per molti aspetti inaspettata». Forse un primo segnale è il presentarsi inconsueto e insistente di pensieri di confronto con i nostri genitori: cosa facevano alla nostra età, fino a che età sono vissuti, quanti anni ci mancano per raggiungere o superare quel traguardo, come stavano di salute alla nostra età. E poi ci sono (anche per chi sta bene) i piccoli e inevitabili segnali di scricchiolamento del corpo: segnali a cui non facevamo particolarmente caso e che ora invece attivano in noi un’ ansia nuova e fastidiosa, che ci accompagna come un sottofondo sgradevole.
Anche se la vecchiaia fa parte delle età della vita, non è facile pensarla davvero come le altre età: pensarla cioè come un tempo di sviluppo, con un proprio specifico “compito evolutivo” secondo il linguaggio dello psicanalista E. Erikson. Che compito evolutivo, e dunque migliorativo, può esserci in una fase della vita in cui tutto ci parla di perdita e di involuzione? Mentre tutte le tappe precedenti promettevano vita, l’approdo certo della vecchiaia è la morte, e la morte è un pensiero che sbarra la strada e che angoscia, perché si affaccia su qualcosa che non è pensabile. L’inquietudine della fragilità ci coglie impreparati, e la cultura in cui siamo immersi non ci aiuta a misurarci con l’idea della nostra finitezza, ma ci spinge piuttosto a mettere in atto strategie difensive che tengano lontano le vere domande, che sono domande di senso. Una prima difesa consiste nel proiettare sul mondo esterno l’aspettativa (o la pretesa) di soluzioni risolutive, come ad esempio la magia di un sistema sanitario così perfetto da sconfiggere ogni malattia e annullare la morte. La morte così non appare più come un evento ineluttabile che non possiamo controllare, ma piuttosto come l’effetto del fallimento di un sistema ancora imperfetto, e che possiamo perciò perfezionare. Si muore per colpa di qualcuno o di qualcosa, e non semplicemente per la nostra mortalità.
Un’altra difesa traspare dal moltiplicarsi delle proposte assicurative, che dovrebbero rassicurarci e diminuire l’angoscia attraverso la protezione contro ogni genere di evento avverso. C’è poi il tentativo di anestetizzare le paure con la negazione: l’anestetico proposto è da un lato l’iperattività, il non rallentare mai nemmeno quando si invecchia; ma lo sono anche le innumerevoli forme di dipendenza che ci vengono proposte, accompagnate dall’idea che per sopportare la vecchiaia l’unica soluzione sia immergersi in una sorta di costante intrattenimento. Ancora più estrema appare poi la nuova difesa che oggi ci viene suggerita tra le righe, e cioè quella di buttarsi attivamente contro ciò che ci fa paura anticipandolo: difesa disperata che mi sembra almeno in parte spiegare una delle dinamiche inconsce del movimento a favore dell’eutanasia, che è il tentativo illusorio di prendere un controllo attivo su ciò a cui non è in alcun modo possibile sfuggire. L’esperienza ci insegna che tutte queste difese sono in realtà fortemente disfunzionali e inefficaci, perché l’inquietudine dilaga e la paura non scompare affatto. Non solo, ma l’uso massiccio di queste difese impedisce di riconoscere e utilizzare le difese realistiche, funzionali e adeguate di cui potremmo invece disporre davanti alla nostra vulnerabilità e alle nostre paure.
Per l’essere umano di qualsiasi età la vera protezione dall’angoscia passa infatti dalla relazione con altri esseri umani; la difesa dal limite e dalla fragilità richiede che siamo capaci di soccorrerci e sostenerci l’un l’altro con il reciproco affetto: una solidarietà concreta e calda che può realizzarsi solo rimettendo al centro del nostro vivere insieme l’affidamento reciproco e la reciproca responsabilità. In questo mondo così sfiduciato, l’anno giubilare ci invita a fermarci per riflettere anche su questo: è possibile rileggere la vecchiaia (che accompagna verso la morte) non solo nella paura, ma anche sotto il segno della Speranza? Nessuno di noi può conoscere in anticipo come sarà per lui il tempo della vecchiaia: un tempo lungo o breve, di salute o di malattia, di dipendenza importante dagli altri o di relativa indipendenza. E nessuno di noi può capire davvero in profondità la lotta personale di ogni singola persona che ci precede invecchiando. Possiamo osservare chi è più avanti di noi in questo cammino, per cercare di imparare da chi ci precede “invecchiando bene”, senza però giudicare chi ci sembra in difficoltà, chi “invecchia male”. Sappiamo che dovremo lasciar andare le cose cui siamo attaccati: la bellezza, la salute, le attività che ci permettevano di controllare almeno un po’ la realtà intorno a noi. A volte dovremo rinunciare anche a controllare la nostra realtà interna, perché potremo perdere almeno in parte la lucidità e la memoria. Nessuno di noi può credere di essere davvero preparato a questo.