Lo sguardo che ci serve a fine anno
— 29 Dicembre 2025 — pubblicato da Redazione. —È uno sguardo che restituisce tutto, che rimette insieme i cocci di una vita che sembra smarrirsi, di un mondo che sembra andare in frantumi
C’è un tempo che illude, un tempo che sottrae e uno che restituisce. Se è vero che nessun tempo è neutro, perché attraversando il tempo tutti noi cambiamo, allora il periodo che collega i giorni di Natale ai primi bagliori del nuovo anno è ancora più interessante.
La grande festa è finita. Anche i meno religiosi ne hanno avvertito nell’aria il sapore, l’istanza di fondo che dialoga con qualcosa che c’è nel cuore. Arrivano dunque i giorni di Capodanno, giorni che vedono la furia giovanilistica spesso protagonista e che si alternano con l’attempato disincanto dell’età adulta, spettatrice di qualcosa che in fondo sa come va a finire.
In mezzo c’è una finestra, uno spazio fatto di distrazioni o di malcelata consapevolezza. In quello spazio, quella che appunto chiamiamo “la fine dell’anno”, si inseriscono pensieri, emozioni e bilanci.
Il tempo non è davvero neutro e ognuno, a un certo punto, è chiamato a guardarlo in faccia. Anche quest’anno ci sono stati giorni che ci hanno illuso. Giornate in cui, vuoi per un nuovo amico o un nuovo amore, vuoi per un nuovo lavoro o per l’arrivo di un figlio, si pensa si possa evitare di fare i conti con sé. Le compagnie, alle medie come al liceo, all’università come tra gli adulti, a volte sembrano concepite più per intrattenerci che per accompagnarci. Ci vuole coraggio per costruire una compagnia non banale, una compagnia per la vita.
Com’erano belle le giornate delle scuole medie, tutte passate a scherzare, a prenderci in giro, a mitizzarci gli uni con gli altri. E com’erano interessanti quelle del liceo, così ricche di pettegolezzi, di cose da fare e da costruire, di epiche giornate che poi diventavano narrazioni condivise. E che dire degli eccessi? Il vantarsi per chi “si era sfasciato di più”, per chi in stato alterato aveva guidato, amato, esagerato.
Era una cosa da liceali, ma anche da universitari, pieni di spavalderia, decisi a essere migliori dei propri padri, accecati dalla promessa incalzante di essere autonomi, dalla percezione che il futuro avrebbe risolto tutto. C’erano le compagnie dello sport, quelle degli amici storici, quelle dei “politici” o dei “musicisti”, quelle delle amiche con mille soprannomi. E tutto sembrava fosse destinato a essere così, eterno e onnipotente.
Ma il dolore faceva capolino: la malattia di uno, la morte di un altro, la fine di un amore, il tramonto di un’amicizia. Eppure, si poteva andare avanti, superare tutto, senza mettere in discussione chi eravamo e come stavamo gestendo la nostra anima.
Poi, da adulti, la promessa diventava cinismo, la compagnia restava rifugio: si facevano cose insieme, ma di fatto – lontani da un dialogo vero e profondo – non si era più insieme. E lo spazio tra le domande ultime e le cose di sempre, perfino le cose buone e sante, diventava più ampio, a tratti insopportabile. Questo è il tempo che illude, un tempo però non vano, ma un tempo strano e buono, un tempo che – spesso – prepara, educa, riapre la ferita. Perché, oltre quel tempo, c’è un altro tempo: quello che sottrae.
A fine anno si vede bene che cosa ci ha sottratto il tempo che abbiamo attraversato: un marito, un matrimonio, una donna, forse una madre o un padre, forse un figlio. Il tempo, più spesso, sottrae energie, voglia di vivere, speranze. E ci lascia più silenziosi, più amareggiati, un po’ più soli. Ma questa cosa non si può dire, bisogna lasciar correre e – forse – fare anche finta di amare. Fa impressione vedere come continuano a vivere, con che dignità e con che coraggio, tante persone che sono state lambite dal dolore o dal segno di una tragedia.
Poi, come a coronamento di tutto, sopraggiunge a volte un tempo particolare: è il tempo che restituisce, quello in cui trovi casa, spazio, calore. In quel tempo finalmente si può piangere, si può correre, ci si può dire e fermare. È lo spazio di una persona, di una famiglia, di un’amicizia. Tutti lo cercano, tutti lo vogliono, tutti lo bramano. L’illusione del nuovo e la sottrazione di ciò che è prezioso cedono il passo alla restituzione più vera, quella del nostro volto umano.
Il tempo di Dio, inaugurato con il Natale, è il tempo di un Dio che è venuto a restituire all’uomo il suo volto. Poco importa di che cosa ci siamo illusi o che cosa abbiamo perso, che cosa abbiamo dovuto reggere o che paure e vergogne abbiamo attraversato. Ciascuno di noi da quella notte splendida ha la possibilità di acquisire un volto vero e ce l’ha, misteriosamente, attraverso lo sguardo di un altro. Non si ama da soli, ma in uno sguardo. Non si cresce da soli, ma in uno sguardo. Non si costruisce da soli, ma in uno sguardo.
Chi crede che la pace sia assenza di conflitti si illude, chi crede che la grave crisi morale che affligge l’occidente si ripari con qualche misura politica imposta o urlata, si illude. È uno sguardo che restituisce tutto, che ripara tutto, che rimette insieme i cocci di una vita che sembra smarrirsi, di un mondo che sembra andare in frantumi. E forse in frantumi lo è, forse lo siamo un po’ tutti.
Ma oggi è il 29 dicembre. Un bel giorno per accorgersene e per iniziare a mendicare uno sguardo così. Uno sguardo che tutto sorprende, tutto illumina. Uno sguardo che tutto può cambiare. E, diciamocelo, perdonare.
Fonte: Federico Pichetto | IlSussidiario.net








