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Il caso delle gemelle Kessler ci interroga su ciò che siamo diventati

Nessun giudizio sulla scelta del suicidio assistito, eppure dovremmo chiederci come la società ha reagito, a partire dai social, rispetto alla decisione delle due sorelle. Avevano bisogno di aiuto, di poter amare la vecchiaia piuttosto che di elogi postumi alla “dolce morte”
Un anno fa a Milano dal balcone di fronte al mio si è gettato un ragazzo di 14 anni. Lungo tutta la via un silenzio agghiacciato ha accompagnato per ore la vista di quel lenzuolo bianco, a coprire il suo corpo in attesa che si espletassero rilievi e accertamenti. Nessuno ha gioito per quella morte seppure volontaria, nessuno ha esclamato «era quello che voleva lui, quindi zitti, ha fatto bene», nessuno ha parlato di «diritto». Tutti ci si è chiesti perché. E se sarebbe stato possibile prevenire quel gesto, volontario – senza dubbio – quanto disperato. Quello che, quindi, mi sono chiesta alla terribile notizia del doppio suicidio delle gemelle Ellen e Alice Kessler è: qual è la differenza tra i due casi? Perché, di fronte alla loro rinuncia alla vita, i social – termometro degli umori collettivi – grondano di commenti che esaltano la “bellezza” di quel gesto (cito dalle migliaia di post), addirittura il «romanticismo» del loro suicidio, «l’alto esempio che ci danno», «il coraggio di indicarci la via», e ben pochi invece si chiedono che spaventosa angoscia dovesse covare nei loro cuori per indurle ad annientare l’istinto di sopravvivenza e organizzare un suicidio deciso da tempo? Non erano malate terminali, non erano attaccate a macchine o piegate da dolori insopportabili, dietro quella decisione c’era proprio la paura di vivere (per loro di vivere la vecchiaia, la solitudine… di vivere la morte), esattamente come per il nostro 14enne. Le ragioni erano certamente diverse, ognuno ha le sue per sentirsi disperato, ma la risposta in entrambi i casi è stata la stessa: meglio morire.
Eppure la pietà riservata al ragazzino non viene ora concessa alle sorelle Kessler, anzi applaudite, lodate, esaltate: perché? La prima evidenza, di estrema crudezza, è l’età, a 14 anni la vita si attira più rispetto che a 89. Come se da anziani si fosse più di là che di qua e si valesse meno, come se questa famosa terza età (ormai anche quarta) cui tutti agogniamo fosse in fondo un’arma a doppio taglio (bello invecchiare, ma mica tanto, perché comunque là in fondo c’è la morte).
Seconda differenza, la modalità del suicidio: scioccante, violento, tragico il primo; “assistito” quello di Ellen e Alice. Siamo sinceri: se la polizia tedesca le avesse trovate in casa morte con vasetti di pillole svuotati, o le vene tagliate, o appese a una corda, come capita in genere, non plauderemmo al loro gesto, che ci apparirebbe in tutta la sua tragicità. Ma la “dolce morte” ci abbaglia: ammanta, già nel nome, ciò che di dolce non ha nulla, perché immaginiamocele le due amatissime gemelle Kessler mentre – inventiamo ma non troppo – si tengono per mano e insieme si avvelenano, la sorella sana assieme a quella depressa (con un kit apposito e un medico accanto, che le “assiste” ma non agisce, se no sarebbe omicidio, così vuole la legge tedesca). Identiche dalla nascita, identiche nella morte. Destinate, come spesso accade ai gemelli, ad essere sempre una ma anche due. Non avevano marito né figli, non nipoti né amici: verso che futuro andare a 89 anni e sole? Che cosa ancora sperare? Quali sogni e progetti, ormai? Quanti anni-luce erano lontane le stelle del successo?
Fossero state due persone disagiate e povere, oggi ci chiederemmo «dov’erano i servizi sociali?», «nessuno se n’è accorto?». Ma le due Kessler no, loro le vediamo brillanti di lustrini, bellissime, ricche, famose, quindi automaticamente felici e sicure di ciò che volevano, sembrerebbe blasfemo pensare che anche loro avessero bisogno di un aiuto, di sentirsi utili, di avere ancora un ruolo in questa vita, di poter amare la vecchiaia. E questo le condanna a non meritare compassione: «che gesto meraviglioso», «che forza d’animo», «quanta lungimiranza», «l’Italia impari da loro!».
Sia chiaro, potrà capitare a chiunque di noi, un giorno, di gettarci tra le braccia della morte perché più di lei ci fa paura la vita. Basta un lutto, una malattia, il buco nero della solitudine, la ferocia di chi ti fa sentire inutile, per decidere di finirla qui con un volo di pochi secondi o un’iniezione. Qui non si giudica nessuno, tantomeno Ellen e Alice che certo colpe non hanno, qui si medita su di noi, su una società che di fronte a due persone morte si compiace e non si interroga su ciò che è andato storto. Perché non dimentichiamolo, la morte, specie volontaria, è una disgrazia, e quando la vita diventa persino peggio della morte qualcosa veramente storto è andato.

Un’infanzia infelice, poi una vita apparentemente brillante («vesti la giubba, la faccia in farina» canta il Pagliaccio di Leoncavallo, simbolo degli artisti destinati a nascondere il dolore dietro la maschera), le Kessler ci insegnano invece quanto i soldi non diano felicità, la fama sia effimera, la bellezza non conti nulla. Tre settimane fa l’ultima loro apparizione proprio nel famoso Circo Roncalli di Monaco, eleganti, sorridenti, accolte con calore da un pubblico che non le aveva scordate. Ma insufficiente a riempire la sfortuna di un vuoto.

Fonte: Lucia Bellaspiga | Avvenire.it

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