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Educare alla sessualità è compito della scuola ma non è una materia
— 4 Novembre 2025— pubblicato da Redazione. —
Il movimento del Sessantotto e la rivoluzione sessuale che ha generato hanno avuto il grande merito storico di infrangere le catene di una morale sessuofobica che imprigionava il nostro rapporto con il desiderio e che faceva della sessualità un vero e proprio tabù. La parola “liberazione” ha trovato nel corpo un suo teatro decisivo: liberazione dal peccato, dalla vergogna, dal silenzio, dalla discriminazione che per secoli aveva avvolto la sessualità nella spessa nebbia della colpa. Il desiderio ha potuto finalmente essere pronunciato, esplorato, vissuto fuori dalla clandestinità austera del confessionale. Un nuovo illuminismo ha dissolto l’oscurantismo moralistico della condanna nei confronti di un diritto al godimento sessuale fine a se stesso, dunque sganciato dalle finalità riproduttive dettate dall’istinto. E, tuttavia, come spesso accade, ogni liberazione porta con sé nuove forme di cattività. Se allora il nemico era l’interdizione sessuofobica, oggi il rischio è, almeno ai miei occhi, un nuovo tipo di oscurantismo. Mi riferisco alla riduzione della sessualità a fenomeno da spiegare, classificare, amministrare. Ma anche alla sua colonizzazione da parte di ideologie diversamente identitarie che pretendono di racchiudere il suo mistero all’interno di categorie fatalmente rigide.
È in questo scenario più generale che dobbiamo collocare l’attuale dibattito politico sull’educazione affettivo-sessuale nelle scuole. È una questione seria che non può essere liquidata né con un moralismo rovesciato — condannare la sessualità eterosessuale come rigidamente binaria e normativa di fronte ad altre forme di sessualità che sarebbero più libere ed espressive — né con l’ingenuità scientista di chi crede che basti un modulo formativo per educare al mistero irriducibile del desiderio sessuale e della vita affettiva.
Il punto cruciale è che tale educazione non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita.
L’educazione affettivo-sessuale dovrebbe essere un obbiettivo trasversale dell’intera vita scolastica, un suo effetto educativo essenziale più che una materia a sé stante. Ogni insegnante, ogni adulto che abita la Scuola, è già — volente o nolente —, se si vuole proprio usare questa brutta espressione, un “educatore sessuale-affettivo”. Il modo in cui si parla, si ascolta, si guarda l’altro, il modo con il quale si riconosce pienamente la sua differenza, costituisce già una forma di educazione in atto. Freud ci ha insegnato che la sessualità umana è, sin dalla sua origine, perversa-polimorfa. Con questa formula egli non intendeva affatto descrivere una patologia, ma l’eccedenza della sessualità umana da ogni forma di regola istintuale e di norma morale. L’animale umano è, per definizione, sregolato, non ha istinti sessuali programmati, ma desideri che devono trovare una forma di soggettivazione singolare. Come ricordava uno straordinario Giuseppe Ungaretti a Pasolini in Comizi d’amore, la sessualità ci rende tutti poeti, ovvero soggetti obbligati a un esercizio di invenzione creativa.
Da questo punto di vista l’educazione sessuale e affettiva non può che essere una educazione alla propria libertà e a quella dell’altro. Non esiste una sessualità “normale”, così come non esiste una vita affettiva armoniosamente perfetta. Esistono solo tentativi più o meno riusciti di dare una forma umana alla forza anarchica e sempre instabile del desiderio. Essere eterosessuali, omosessuali, lesbiche, bisessuali, fluidi o altro non garantisce in alcun modo una vita sessuale e affettiva realizzata e gioiosa. L’identità sessuale, qualunque essa sia, non salva dal rischio dell’infelicità, del fallimento, del disagio e della solitudine. È un errore e una grave illusione pedagogica pensare che basti riconoscere un’etichetta per risolvere il mistero del desiderio. La psicoanalisi ci ricorda che il desiderio non è mai completamente trasparente a se stesso, che rimane sempre in esso un resto opaco, un enigma irrisolvibile.
Ecco perché ogni vera educazione alla sessualità dovrebbe essere, prima di tutto, un’educazione al mistero. Che cosa significa amare? Che cosa significa desiderare? Perché possiamo fare delle scelte sessuali o amorose che anziché aprire la nostra vita alla pienezza della vita, la offendono e la feriscono? Perché dovremmo sempre sottrarci a rapporti che assomigliano a delle catene e perché a volte invece li ricerchiamo morbosamente? Perché non è così facile unire e non opporre il desiderio all’amore?
Ma siamo sicuri che un programma ministeriale o un’educazione famigliare possano davvero pretendere di dare risposte a questi interrogativi così cruciali che accompagnano da sempre la vita umana? È la Scuola come comunità vivente che deve incaricarsi non tanto di rispondere a questi interrogativi ma di educare quanto meno alla libertà, al rispetto delle differenze e al mistero.
Innanzitutto attraverso i poeti, la letteratura, il cinema, il teatro, insomma, attraverso la cultura che già si insegna. In secondo luogo nel favorire nella vita scolastica di tutti i giorni la lotta contro ogni forma di discriminazione, l’accoglienza della differenza, il riconoscimento del pieno diritto di ciascuno alla propria libertà sessuale. Un dubbio: tutto questo si ottiene facendo della sessualità e dell’affettività una materia di studio?
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