Il linguaggio parlato può essere inteso come l’espressione dello stato d’animo di un particolare periodo storico? Per chi ha un rapporto di corpo a corpo col linguaggio come succede a me, la cosa è evidente.
Prima osservazione: la semplificazione linguistica. Si tende a ridurre e contrarre il discorso, non per renderlo più chiaro ma per disfarsene al più presto e passare ad altro. La fretta consumistica è diventata parte delle comunicazioni cittadine. Ma la ragione ha bisogno di tempo, Non si può ragionare coi telegrammi; che vanno benissimo per annunciare un arrivo, una nascita, ma se si vuole approfondire un discorso, la mutilazione linguistica uccide la ragione. E qui viene da pensare che sia proprio la ragione a essere diventata insopportabile per molti nostri contemporanei. A che serve la ragione che è lenta, complessa, pluriforme? Molto meglio affidarsi al pensiero istintivo, ai sentimenti privati, alle informazioni rapide e immediate che, aggiungo io, sono troppo spesso manipolate.
Seconda osservazione: la tendenza a insultare e denigrare l’avversario. Oltretutto con una disperata povertà di immaginazione: vengono usate soprattutto le parole escrementizie, le presunte accuse legate alle convenzioni sessuali, da cui si deduce che le offese più feroci sono quelle che attribuiscono ai maschi caratteri fisici e morali considerati femminili.
Terza osservazione: l’ingresso di parole inglesi nel parlato quotidiano. Soprattutto dei tecnocrati i quali, siccome le macchine parlano inglese, si sentono alla pari con la modernità inserendo una parola inglese ogni tre italiane. Ma alla lunga cadiamo nel servilismo linguistico. Gli esempi più vigorosi e deleteri vengono purtroppo dalla politica, dai media, soprattutto dalla radio che è la più vicina al parlato quotidiano.
A questo punto mi chiedo: perché ci meravigliamo se poi i nostri figli e nipoti pensano che ci si debba confrontare con gli insulti e la denigrazione dell’avversario, anziché affrontarlo con la ragione, le idee, la logica, il pensiero etico? Inoltre, ricordiamolo, si fa presto a passare dal linguaggio della violenza verbale alla violenza fisica. E la cronaca ce lo ricorda ogni giorno. Il degrado linguistico insomma è lì a dirci che stiamo perdendo il rispetto di noi stessi. E se non rispettiamo noi stessi neanche gli altri ci rispetteranno.
Il che vuole dire passare dalla democrazia, la sola a difendere i diritti civili e la separazione dei poteri, alla barbarie della prepotenza politica e culturale e della guerra.
Fonte: Dacia Maraini | Corriere.it