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Autenticità e imperfezione possono battere AI e algoritmi, ma servono “nuovi” prof

I giovani sono soggiogati dall’AI. Deve cambiare la sfida della scuola: il baricentro si sposta dall’output al processo. Cambia anche il ruolo del docente

L’intelligenza artificiale (AI) è ormai parte integrante del nostro quotidiano. Con strumenti sempre più accessibili, come ChatGPT, l’AI generativa è entrata con forza anche nel mondo scolastico. Nel dibattito attuale si tende spesso a ridurre l’AI al problema degli studenti di copiare o meno i compiti,  grazie a un prompt ben formulato. In realtà il cambiamento è molto più profondo e, oltre gli aspetti scolastici, interessa la dimensione emotiva e relazionale delle giovani generazioni.

L’AI, infatti, sta diventando sempre più spesso il rifugio emotivo di una generazione che fatica a connettersi col mondo reale. Il fenomeno degli hikikomori, ragazzi che si isolano rinchiudendosi nella propria stanza, non è più un’esclusiva giapponese. In Italia coinvolge ormai oltre 100mila adolescenti. E l’AI rischia di diventare la chiave che chiude a doppia mandata la porta della loro stanza. Perché uscire, quando si può parlare con un assistente virtuale che simula l’amicizia, senza lo sforzo delle relazioni umane?

Viviamo il paradosso di una generazione iperconnessa, ma profondamente sola, che sa dialogare con le IA in più lingue, ma fatica a dire “ti voglio bene” guardando negli occhi un’altra persona. La scuola e le famiglie devono evitare di essere complici, seppur inconsapevoli, di questo isolamento e riaffermare sempre più il loro ruolo quale ultimo spazio e baluardo della relazione umana.

A fronte di questa realtà la scuola si trova a combattere una guerra impari contro la seduzione di un mondo digitale che promette tutto senza chiedere nulla in cambio.

Rifiutare il confronto con l’AI non serve a proteggere i processi educativi, anzi la scuola ha oggi l’opportunità – e il dovere – di trasformare l’intelligenza artificiale in un alleato pedagogico. Non per sostituire l’insegnamento, ma per ripensarlo. Non per delegare, ma per stimolare un apprendimento più consapevole, autentico e profondo. L’apprendimento non può più coincidere con l’accumulo passivo di informazioni, ma risiede nella capacità di elaborare, interpretare, contestualizzare e mettere in discussione i contenuti, soprattutto quando questi vengono forniti da un’intelligenza artificiale.

La scuola ha il compito di spostare il baricentro dall’output al processo, stimolando nei ragazzi una consapevolezza metacognitiva: imparare non è ripetere, ma comprendere il senso del proprio pensare. Pertanto, si prospetta una trasformazione epocale della scuola che, tuttavia, potrà avvenire solo in presenza di una profonda evoluzione della figura dei docenti che deve cambiare radicalmente rispetto al passato. Non può più essere quello di trasmettere informazioni, compito che ormai svolgono Google e gli algoritmi, ma di provare ad offrire ai ragazzi ciò che l’AI non può dare, ovvero la bellezza dell’imperfezione, l’autenticità delle relazioni, la ricchezza del confronto, l’importanza dell’errore. Il nuovo insegnante deve essere un mediatore culturale, un facilitatore di esperienze, un punto di riferimento umano in un mondo automatizzato. Non più (solo) trasmettitore di saperi, ma educatore alla complessità.

Pertanto, sarà necessario ripensare la loro formazione prevedendo non solo corsi di aggiornamento tecnico, ma soprattutto percorsi formativi capaci di integrare competenze digitali, relazionali, pedagogiche ed emotive. Serve una formazione strategica che prepari gli insegnanti ad accompagnare gli studenti in un mondo incerto, complesso, frammentato.

In un mondo dominato dall’ automazione, da schermi e simulazioni, la scuola può e deve essere uno spazio di autenticità dove i giovani possono esprimere la capacità di stare in relazione con l’altro in modo genuino, anche nel conflitto, anche nella fatica.

Educare all’autenticità vuol dire creare ambienti in cui lo studente si senta ascoltato, accolto, sfidato. Dove il valore di un’idea non dipenda dalla sua forma perfetta, ma dalla sua origine viva. Dove si possa fallire senza essere esclusi, e crescere attraverso l’errore.

Un esempio per tutti: in un contesto dove l’AI può produrre testi impeccabili in pochi secondi, la scrittura umana rischia di sembrare lenta, inefficiente, persino superflua. Eppure, è proprio in ciò che le macchine non sanno fare — provare emozioni, raccontare il vissuto, trasformare l’esperienza in linguaggio — che risiede la forza del pensiero umano. Scrivere, creare, sbagliare sono atti che ci mettono in contatto con noi stessi, ci espongono, ci rendono autentici.

In conclusione, l’intelligenza artificiale non deve essere vista né come nemica da temere, né come scorciatoia da accettare passivamente. Deve, piuttosto diventare oggetto di riflessione critica, occasione di crescita, stimolo per una nuova idea di scuola. Un’idea in cui tecnologia e umanità non siano in contrapposizione, ma in dialogo.

La vera sfida non è insegnare a usare l’AI, ma insegnare a restare umani mentre la usiamo. Coltivare nei ragazzi l’empatia, la responsabilità, la capacità di pensiero autonomo e creativo sarà il compito educativo più urgente dei prossimi anni. Alla scuola è affidato il compito di preservare l’umanità profonda delle future generazioni, prima che si perdano definitivamente nel mondo perfetto e vuoto degli algoritmi. Perché alla fine, l’unica intelligenza che conta davvero è quella della mente e del cuore. E, fortunatamente, questa resterà per sempre  profondamente umana.

Fonte: Giuseppe Santoli | IlSussidiario.net

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