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Uno all’ora

Noi siamo tempo incarnato. E possiamo renderlo eterno, con «attenzione» e «intenzione»: ecco come

Ho scoperto che molti quattordicenni non sanno leggere l’orologio a lancette. I cellulari hanno reso obsoleto insegnarlo o impararlo. Sembra strano alla mia generazione che ne ha un ricordo indelebile. Entravamo nel tempo dei «grandi» in cui le cose accadevano all’ora precisa (soprattutto i cartoni animati). Ma non sospettavo di aver perso la magia dell’infanzia, quando il tempo non conta perché non lo si conta, non c’è ansia. Da quel momento invece il tempo cominciò a scorrere e le tre lancette lo segnalavano inesorabilmente. Accadeva da secoli: l’ombra delle meridiane, il flusso di sabbia nelle clessidre, l’ondeggiare dei pendoli. Non serviva leggere «Il pozzo e il pendolo» o «La maschera della morte rossa» di Poe per sentirsi «tagliare» dal tempo, bastava la lancetta che è infatti una «piccola lancia»: secondo e secolo vengono dal latino secare (tagliare), e una vita in media si estende tra questi due tagli.

Insomma l’orologio affetta il tempo e quindi noi, che siamo tempo incarnato.

Invece le cifre sullo schermo fermano l’istante (scattano un’istantanea al tempo), non scorrono: appaiono. Non segnano il momento (da movimento) della Terra attorno al proprio asse ma l’attimo, parola che viene da soffio o atomo (il non tagliabile). Il tempo analogico scorre, il digitale è assoluto. Che cosa è meglio: che il tempo corra come le lancette o che si illumini sullo schermo?

Noi abbiamo due tempi quantificabili: quello storico, lineare e progressivo, che avanza come una sonda lanciata nello spazio, e quello cosmico, circolare e ricorsivo, che ritorna come le stagioni. Da come viviamo questi due tempi dipende la vita. Alcune culture, come quelle agricole, privilegiano il secondo, che garantisce ordine e frutti. Altre, come quelle tecnologiche, il primo, e cercano di accelerarlo perché il domani sarà migliore. Le Ore erano in Grecia divinità femminili che garantivano l’ordine ciclico del tempo e infatti hora significava stagione, per noi le ore sono invece torte di 60 fettine (minuto significa piccolo). Modi molto diversi di affrontare l’ora.

E proprio a partire dal rapporto con il tempo Claude Lévi-Strauss divideva le culture in fredde o calde, le prime cercano di frenare il corso lineare, perché è decadenza come accade nelle età della vita, più si è vicini all’origine da conservare (culto della Memoria) meglio è; le seconde amano accelerare perché il meglio è domani: progresso, evoluzione, innovazione (culto dell’Avvenire). La nostra, guidata dalla tecnologia, è una cultura caldissima, in accelerazione costante per raggiungere la felicità: più che il corso ci piace la corsa del tempo. Le prime culture (come i singoli) rischiano la malinconia (vivere nei ricordi) e il congelamento (la Memoria diventa prigione), le seconde l’ansia (la felicità è sempre dopo) e il surriscaldamento (il Futuro diventa distruzione), ma entrambe rischiano di andare fuori tempo e perdere il presente, o per eccesso di lentezza/conservazione o di velocità/sostituzione.

Come sempre la felicità sta nel mezzo. In un terzo tempo in cui la memoria si rinnova e il futuro si incarna, entrambi in un presente non quantificabile perché è interiore, cioè dipende dalla libertà: la posizione che decido di assumere in ogni istante. Un modo di essere che Agostino nelle «Confessioni», ben prima del surrogato contemporaneo (mindfulness), chiamava «presenza del presente», che accade solo grazie al «cointuitus», termine in cui univa «attenzione» e «intenzione», che rendono l’attimo «eterno».

L’istante ha densità e intensità tali — è pieno di senso — da fermarsi, è contemporaneamente memoria (presenza del passato) e speranza (presenza del futuro).

In questo senso l’ora che appare sullo schermo del cellulare lo evoca più del movimento delle lancette: unica e irripetibile. Ma come si fa a stare nell’istante con questa «attenzione» e «intenzione»? A fare dell’accensione dello schermo anche un’accensione di cuore, mente e corpo? In «cointuitus», il prefisso co- aggiunge a -intuitus (guardar dentro, fissare, prestare attenzione) il tenere insieme: è uno sguardo simultaneo, che collega, unifica, abbraccia. Che cosa? Kierkegaard ha risposto, grazie anche al fatto che in danese «istante» si dice «batter d’occhio» (øieblik, composto da occhio e lampo, eye più blink in inglese), che l’istante è il riflesso dell’eternità nel tempo, il punto di contatto dove eternità e tempo si toccano. Il filosofo ne parla nel suo libro sull’angoscia perché il vero istante comporta una scelta: la libertà ci sottrae al finito delle cose che non scegliamo e ci apre all’infinito di quelle possibili, e rende l’istante eterno se scelgo la vita e non la morte. Cioè?

Poter scegliere ci rende unici, una unicità che in realtà temiamo perché la libertà è impegnativa, infatti tendiamo a nasconderci a noi stessi, a scomparire nella routine, nell’omologazione, nel «come tutti» che ci rassicura e garantisce esistenza (ma non vita). Evitiamo la solitudine buona (che è unicità non isolamento) e ci perdiamo nelle cose del mondo, quando siamo fatti per stare di fronte al mondo.

Lo spiega bene Jon Fosse, recente Nobel per la letteratura: «L’intera ideologia contemporanea, propagata quotidianamente dai media, ci dice che è questo che dobbiamo fare, scomparire nelle cose, sotto forma di produttori e consumatori, dobbiamo chiuderci nel mondo per sfuggire a noi stessi, alla nostra solitudine interiore, che non viene vista come qualcosa che ci lega a Dio, attraverso il silenzio, ma come qualcosa di spaventoso, minaccioso: abbiamo paura di noi stessi, e di Dio, molto semplicemente» («Il mistero della fede»).

La paura evita l’istante, preferisce il «distante». Ma diventa eterno solo l’istante (nel Medioevo i teologi parlavano di «nunc stans», l’adesso che rimane) che sottraiamo al mondo e alle sue regole mortifere, alle sue convenzioni e finzioni, trovandovi e immettendovi vita nuova a partire dalla nostra unicità. Per questo ci vuole «attenzione» (tensione verso ciò che ho davanti) e «intenzione» (impegno verso ciò che ho di fronte), altrimenti sparisco nelle cose, il mondo mi inghiotte. Solo la scelta della vita sottrae il tempo a lancette e schermi: essere riempiti e riempire l’attimo scegliendo di aumentare la vita, non la morte, in me e attorno a me. Tutto il resto è tempo perso, morto, nel senso che «è passato».

Tutto questo può sembrare lontano dal quotidiano, ma ne è la sostanza, basta forse un esempio che ciascuno poi adatterà al suo vissuto. Per me è eterna un’ora di lezione in cui metto: attenzione alla vita di ogni studente che mi capita di fronte e intenzione per far sì che l’ora serva a quella vita per crescere. Scelgo il presente, scelgo il mio studente: lo vorrei in classe se non ci fosse, lo vorrei nel mondo se non fosse nato. Per fare così devo però tirar fuori più vita da me, prima che da lui, una vita nuova. Questo comporta sì fatica ma anche gioia, perché l’ora trabocca di senso, non è un’ora di italiano a 17 euro, ma di vita che non muore e non c’era (da dove sgorghi richiede un altro articolo). Il tempo, circolare o lineare, che quantifichiamo con ombre, sabbia o lancette, è abbracciato e assunto in un altro tempo, che non è quantificato ma qualificato: dalla vita che scelgo. Noi siamo tempo incarnato e quando tocchiamo l’eterno è la carne che si eterna. Il sogno del transumanesimo è riuscirci con la tecnologia, sottraendo la coscienza al supporto carnale (mortale) e impiantarla in uno di silicio (immortale). In realtà questo è possibile già ora, e proprio nella carne.

Dante lo chiamava «trasumanare», che non era però andare oltre l’umano per raggiungere il paradiso, ma andare in paradiso per compiere l’umano. 

E non dopo la morte (in paradiso come all’inferno non ci si va, ci si è), adesso, come esclama il protagonista delle «Notti bianche» di Dostoevskij: «Dio mio! Un intero attimo di beatitudine! È forse poco sia pure nell’intera vita di un uomo?».

Figuriamoci uno all’ora…

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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