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Colpevoli di realtà

Il divieto di utilizzare i cellulari a scuola tassativamente voluto dal Ministero è un’occasione educativa. Se alibi significa «altro qui» (non ero sulla scena, ero altrove, sono quindi innocente), oggi non ci accontentiamo più di un alibi, ma ci viviamo dentro: non siamo dove siamo, con il rischio di non essere chi siamo. Il cellulare ci rende «innocenti», e non di reato, ma di realtà (reato e realtà hanno la stessa radice: res, la cosa, il fatto) e se c’è una «cosa», un «fatto» di cui è bene essere rei, colpevoli, è proprio la realtà, perché è lì che accade il destino di ognuno, come raccontavo la scorsa settimana.

L’intreccio di genetica ed epigenetica rende ciascuno di noi unico, per questo usiamo la metafora del «trovare il proprio posto nel mondo» o del «sentirsi fuori posto», perché nella storia dell’umanità non ci sarà mai nessuno come noi, che ci piaccia o no. Ma spesso, per pigrizia, per mancanza d’amore, per paura di questa unicità, viviamo di alibi: schermati da noi stessi e dal mondo. La realtà non può raggiungerci, con la conseguenza di non scoprire il nostro destino e la nostra destinazione, e finire per accontentarci o del posto che altri ci impongono (uni-formarci) o a volere quello che altri già occupano (con-formarci), con inevitabili crisi e delusioni. In che modo la forzata sottrazione del cellulare dovrebbe aiutare i ragazzi a trovare il proprio posto nel mondo?

Il digiuno da schermo evita la sovra-stimolazione nervosa a cui siamo esposti, ancor più dannosa per bambini e adolescenti, perché impedisce di stare di fronte e dentro la realtà proprio quando hanno bisogno di allenarsi a farlo. Solo i “momenti di essere”, come li chiamava Virginia Woolf per distinguerli da quelli dettati da routine in cui è come se non ci fossimo, ci rendono unici: sono momenti in cui non possiamo essere sostituiti da nessuno. Ma questi momenti richiedono una solitudine non facile da affrontare, perché solitudine dice vuoto, un vuoto che noi temiamo perché lo confondiamo con il nulla (“non sono niente di speciale, non c’è alcun posto per me”), mentre soltanto un recipiente “vuoto” e “integro” (solo ha una radice antica che significava intero) è “capace”, può essere quindi riempito.

La dolorosa prova della solitudine apre all’unicità: se penso di non essere “capace” è semplicemente perché non sono né “vuoto” né “integro”, non ho fatto esperienza della condizione di “separatezza” (non so che forma ho) che è costitutiva dell’essere unici, e non in simbiosi, dipendenti, continuando ad usare il mondo e gli altri narcisisticamente, per contenere la paura. L’incapacità di solitudine è letteralmente “in-capacità”, “dis-integrazione”, non posso incontrare e ricevere il mondo alla mia maniera, per questo mi riempio di illusioni di destino, alimentate dalla continua esposizione a social e piattaforme, video e immagini.

Il divieto di usare il cellulare per cinque o sei ore, trasformato magari in scelta di libertà da un oggetto con il gesto fisico e consapevole di riporlo in un contenitore in bella vista in classe, potrebbe restituire un certo gusto per la solitudine, purché la scuola sia poi un “momento di essere”, il luogo in cui si incontra ciò che non muore nel mondo (la vita) per sentirsene parte, avere “un posto”. Insomma un po’ di realtà senza “alibi”, perché la realtà, senza post-produzione e filtri, è senz’altro più faticosa, ma è capace di darci proprio quello che ci manca e non quello che ci dicono dovrebbe mancarci. Sostare (so stare?) nel qui e ora, senza bisogno di raggiungere gli altrove mentali e digitali per paura, per noia, per tristezza, aiuta a scoprire chi siamo e che cosa vogliamo. Essere sul luogo – non del reato – ma del reale ci rende “capaci” e “integri”. La solitudine è il faccia a faccia non narcisistico con se stessi.

Vedo tanti ragazzi volersi “mettere” a tutti i costi con qualcuno, “mettiti prima con te stesso” che con qualcun altro, dico loro, perché non c’è peggior solitudine della comunione mancata, inevitabile in una relazione dettata solo dalla paura di rimanere soli. Tutti cerchiamo alibi perché sono tante le sofferenze, i dolori, le paure da cui fuggire. Vale ancor di più per una persona in formazione (in cerca della propria forma), il cui vuoto acuisce il bisogno di fuga dal qui e ora, eppure, proprio lo starci, nel qui e ora, nel vuoto, fa scoprire la modalità unica in cui la vita si dà in me: sono “capace” di vita alla mia maniera, come diversa è la forma di un bicchiere (vino, amaro, birra, acqua…).

Sintetizzo con le parole che mi scriveva qualche giorno fa una giovane lettrice: “Le parole del libro mi hanno salvato. Le ho lette in un periodo in cui soffrivo per noia, mancanza di amicizie, abbandono e altro. Quasi ogni giorno si concludeva con occhi gonfi e nessuna forza di alzarsi dal letto. Non vedevo l’ora che tornasse la scuola (che odio più per i professori che per i ragazzi) solo per avere una routine ed essere obbligata ad alzarmi. Le sue parole mi hanno fatto capire che c’è speranza, tanta unicità nel mondo, che le persone non sono tutte uguali. Ho riniziato a vivere, mi ha fatta rinascere”. È stata proprio la solitudine a salvarla, perché si è aperto lo spazio (capacità) per un libro, uno spazio che la routine o un cellulare avrebbero tappato, non riempito.

La solitudine è relazione, e apre, rende capaci, l’opposto dell’isolamento: l’isolato (da isola, tutt’altra radice rispetto a solo) si chiude, evita le relazioni, perché è “uno”, il solitario invece è “unico” come un pezzo del puzzle, ha fame di legami. Ed è solo tra due “unicità” che può avvenire vera comunicazione e comunione: intimità. Chi è unico può ricevere la vita: da un libro, un insegnante, un’ora di chimica… La solitudine è piena di vita, perché rende capaci di mondo, l’isolamento no. La scuola è il luogo in cui viene offerto quel mondo, relazioni con ciò che vale. La solitudine è unicità, originalità. Per questo mi è sempre piaciuto che nella famosa parabola dei talenti si dica che ciascuno li riceve “secondo le sue capacità”: cioè ciascuno riceve vita sulla base di quanta ne può contenere, tutta quella che può contenere (i talenti non sono le capacità, come semplifica una certa lettura da predestinazione o da performance, ma la vita che vuole riempirci alla nostra misura).

E a proposito di vita piena, ieri la Chiesa cattolica ha proclamato santo Carlo Acutis, un quindicenne milanese morto di leucemia fulminante nell’ottobre del 2006. Appassionato di programmazione, internet, videogiochi, cinema, italiano e storia, stentava in altre materie. Al suo funerale si presentarono degli sconosciuti: si scoprì che erano i poveri che incontrava nel tragitto casa-scuola e che aiutava con i suoi risparmi. Sapeva stare nel qui e ora, senza alibi. Diceva spesso: “Tutti siamo nati originali ma molti muoiono come fotocopie. Se non vivi a partire dalla tua originalità, sei in pericolo di morire essendo ciò che non sei”. Lo suggeriva in particolare a un amico che per imitare lo stile di una star spendeva tanto tempo e denaro. Carlo gli ripeteva che la cosa più importante non è vivere la vita di qualcun altro ma “essere contenti di se stessi”. Quell’amico ancora gli è grato per averlo “salvato”: reso originale, unico. Lo auguro a tutti gli adolescenti ed è possibile, perché crescere felici è contattare la propria unicità, cioè la propria “solitudine” che, per quanto scomoda possa sembrare, libera dagli alibi e rende “integri” e “capaci” di realtà. Colpevoli di essere reali. Vivi.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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