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Martiri d’Algeria. Una via di presenza e semplicità

Una mostra al Meeting ha ripercorso, approfondendola, la storia dei 19 religiosi uccisi trent’anni fa dal terrorismo islamista nel Paese nordafricano. Uno dei curatori spiega perché quei martiri «indicano una strada per parlare all’uomo d’oggi»

«Anche te, amico dell’ultimo istante, che non sapevi quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie, e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insh’Allah». Mentre Andrea Soffiantini legge nelle cuffie le ultime parole del testamento di padre Christian de Chergé che si rivolge al suo assassino, è difficile riprendere la parola e dire qualcosa di sensato alle tante persone che sono arrivate alla fine del percorso di visita. Tracce mi chiede un racconto della mostra presentata al Meeting “Chiamati due volte. I martiri d’Algeria”, organizzata da Fondazione Oasis e Libreria Editrice Vaticana, dal punto di vista del curatore. Inizio proprio dalla denuncia di questa difficoltà.

Che parole possiamo mai aggiungere alla chiara e precisa testimonianza dei 19 religiose e religiosi uccisi in Algeria dal terrorismo islamista, nel cosiddetto decennio nero 1992-2002? Se c’è stata un’esperienza evidente nel lavorare a questa straordinaria iniziativa è che questa vicenda di trent’anni fa necessitava di un passo indietro, di una nostra sottrazione, di un’asciuttezza nei modi e nei mezzi. Lavorarci è stata una grande grazia, sempre nella consapevolezza della sproporzione fra il nostro racconto e una realtà viva e presente, che da sola quasi si impone. A volte, dunque, meglio il silenzio e la commozione che un commento in più. In questa costruzione accanto alla provvidenziale competenza degli esperti della Fondazione Oasis, è stata quantomai utile la progettazione di Giuseppe Frangi e dell’architetto Tommaso Campiotti che per un anno hanno lavorato a questa impresa e che voglio qui ringraziare. Per non parlare del dinamismo di Lorenzo Fazzini, responsabile della Libreria Editrice Vaticana, che con i suoi contatti ha allargato il campo e le prospettive di “Chiamati due volte”.

«È questa via di presenza e di semplicità, di conoscenza e di “dialogo della vita” la vera strada della missione. Non un’auto-esibizione, nella contrapposizione delle identità, ma il dono di sé fino al martirio»

Il vero grande e inaspettato dono per noi che abbiamo lavorato alla mostra è stato il messaggio con cui Leone XIV (attraverso il segretario di Stato Pietro Parolin) si è rivolto a questa edizione del Meeting di Rimini. Il Papa, che era venuto a conoscenza dell’esposizione attraverso Paolo Ruffini, responsabile del Dicastero della comunicazione, ha dedicato il terzo paragrafo della sua lettera al tema dei martiri.  Dice testuale il messaggio: «Il Santo Padre ha apprezzato che una delle mostre caratterizzanti il Meeting di quest’anno sia dedicata alla testimonianza dei martiri di Algeria. In essi risplende la vocazione della Chiesa ad abitare il deserto in profonda comunione con l’intera umanità, superando i muri di diffidenza che contrappongono le religioni e le culture, nell’imitazione integrale del movimento di incarnazione e di donazione del Figlio di Dio. È questa via di presenza e di semplicità, di conoscenza e di “dialogo della vita” la vera strada della missione. Non un’auto-esibizione, nella contrapposizione delle identità, ma il dono di sé fino al martirio di chi adora giorno e notte, nella gioia e fra le tribolazioni, Gesù solo come Signore».

La vicenda dei 19 uccisi in Algeria è stata raccontata nella mostra attraverso questa scansione: nella prima sala sono descritte le personalità coinvolte e il contesto storico dove è maturato il terrorismo islamista (dieci anni prima delle Torri Gemelle). Per ogni martire, la foto, un breve profilo, una frase simbolo. Tante le storie, diversi carismi e la presenza di ben quattro diverse nazionalità. Dal primo episodio, datato 8 maggio 1994, quando dei finti poliziotti uccidono suor Paul-Hélène Saint-Raymond, una suorina di padre Pernet insieme al fratello marista Henri Vergès nella biblioteca allestita per i ragazzi nella Casba di Algeri, fino all’attentato al Vescovo di Orano Pierre Claverie, fatto esplodere il primo agosto 1996 con l’amico e autista occasionale Mohamed Bouchikhi. Con al centro la vicenda dei sette monaci di Tibhirine, immortalati dal magnifico film Uomini di Dio del 2010.

«Sono stati beatificati non perché sono morti, ma perché hanno scelto di restare»

Nella seconda sala, si intrecciano i temi della presenza e della condivisione che queste persone hanno intessuto col popolo algerino di fede musulmana e che si sono sviluppati in diversi modi: il dialogo della vita, quello delle opere (chi ha creato una scuola, un dispensario medico, una biblioteca, un doposcuola…), quello teologico e quello strettamente religioso. Quest’ultimo ha raggiunto il vertice con la creazione ad opera del priore di Tibhirine Christian de Chergé, di Ribat al-Salam, un cenacolo di confronto con alcuni musulmani, il cui nome significa “vincolo di pace”. E poi la grande scelta di restare, il racconto di come è maturata. «Restare o partire?» di fronte alla minaccia esplicita dei terroristi chiese anche per iscritto Henri Teissier l’allora Vescovo di Algeri, rivolgendosi a tutte le comunità e a tutti i religiosi. Alcuni partirono, altri decisero di rimanere. Dice in un’intervista il domenicano Jean-Jacques Perénnès, biografo di monsignor Claverie: «Sono stati beatificati non perché sono morti, ma perché hanno scelto di restare. Come padre Massimiliano Kolbe».

Il cuore dell’esposizione sono gli oggetti della memoria dei martiri, generosamente prestati dal monastero di Aiguebelle, che conserva le reliquie dei monaci di Tibhirine, da alcuni parenti delle vittime e dall’Arcivescovado di Algeri. Fra di essi il tipico rosario dei Padri Bianchi-Missionari d’Africa posseduto da Jean Chevillard, la veste domenicana di Claverie e il vestito da monaco di de Chergé. Il tema della terza sala risponde alla domanda laica sull’eredità che lasciano i 19 e sul valore oggi della testimonianza. Curiosamente tutto il “treno dei video” che ricostruiscono con documenti e interviste l’intera vicenda si conclude con le parole pronunciate dalla mamma di Mohamed alla cerimonia di beatificazione del 2018. È una donna musulmana a dire la parola conclusiva.

I martiri d’Algeria sono molto attuali perché dalla riflessione dei monaci di Tibhirine e del loro priore Christian de Chergé nasce anche l’espressione di pace disarmata e disarmante. Sono state tantissime le personalità che, fra gli oltre 15mila visitatori, hanno apprezzato la mostra nei giorni riminesi. Fra di loro è indispensabile ricordare il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli e i leader delle più importanti associazioni e movimenti cattolici, come Margaret Karram, dei Focolari, e Giuseppe Notarstefano, presidente dell’Azione Cattolica. La pace disarmata e disarmante implica infatti la comunione, l’unità dei cristiani. Tanto che Christian de Chergé scrive in quella prima intuizione della Quaresima del 1996 pensando al terrorista che li ha minacciati la notte del Natale precedente: «Ho il diritto di domandare “disarmalo”, se non comincio a domandare “disarmami” e “disarmaci”, come comunità? È la mia preghiera quotidiana». (Christian de Chergé, ritiro di quaresima, 8 marzo 1996). Trenta anni dopo il loro martirio, i 19 indicano una strada per parlare all’uomo d’oggi.

Fonte: Alessandro Banfi | Clonline.org

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