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Se per l’Ucraina tornasse lo scenario «finlandizzazione»?

Finita la seconda guerra mondiale, la Finlandia ha accettato di diventare neutrale per non eccitare gli appetiti di Mosca. Un destino che, all’inizio dell’invasione russa, era stato pensato anche per l’Ucraina, ma di cui poi si è smesso di parla.

Che ci faceva il presidente della Finlandia alla Casa Bianca insieme con gli altri leader europei? La domanda è cruciale. In tutti gli ultimi «formati» in cui l’Europa ha dialogato con Donald Trump, lui c’era sempre: Alexander Stubb. Eppure la Finlandia non fa parte dei «grandi» soci del club UE, non è paragonabile a Germania Francia Italia; né ha forze armate e arsenali nucleari come il Regno Unito; non ha neppure un incarico istituzionale specifico (la presidenza di turno dell’UE spetta alla Danimarca). Porta però in dote altre caratteristiche importanti. Da quando ha abbandonato la neutralità ed è entrata nella Nato, la Finlandia ha il più vasto confine terrestre dell’Alleanza atlantica con la Russia. Inoltre è depositaria di una memoria storica preziosa: ha combattuto un’invasione da Mosca e l’ha sconfitta ricacciandola indietro; poi ha conosciuto il periodo della cosiddetta «finlandizzazione» e può spiegare a tutti di cosa si è trattato. Attenzione a questo termine, perché prima o poi qualcuno lo rilancerà. Soprattutto da Mosca, sia chiaro. Putin non ha mai abbandonato l’obiettivo di una Ucraina neutrale, impossibilitata ad entrare in alleanze altrui…

Le generazioni giovani hanno il diritto di non conoscerlo, ma durante la guerra fredda il termine «finlandizzazione» era assai diffuso nel gergo della geopolitica e della diplomazia. La Finlandia era una realtà e una metafora al tempo stesso. Questo vasto ma spopolato paese nordico si era distinto in una eroica guerra di resistenza contro il leader sovietico Josef Stalin, era riuscito a salvare la propria indipendenza contro un’armata sovietica ben più grande. Il 30 novembre 1939, dopo essersi «spartito» la Polonia con Hitler in base al patto Molotov-Ribbentrop, il dittatore comunista aveva lanciato l’Armata rossa alla conquista della Finlandia. In tre mesi di combattimenti le forze sovietiche non riuscirono a domare un esercito finnico molto più piccolo, e Stalin dovette rinunciare. In seguito, per evitare di essere fagocitati dall’orso russo, i finlandesi appoggiarono l’Operazione Barbarossa di Hitler, quando quest’ultimo stracciò il patto Molotov-Ribbentrop e si rivoltò contro l’alleato.

Finita la seconda guerra mondiale, e avendo provato sulla propria pelle l’aggressività del vicino, la Finlandia ne aveva tratto una conseguenza geopolitica: meglio diventare neutrale per non eccitare gli appetiti di Mosca. Come l’Austria, altra nazione di confine tra Est e Ovest, durante tutto il periodo della guerra fredda la Finlandia aveva accettato un destino di sovranità limitata. Neutrale fra i due blocchi – e spesso padrona di casa per importanti vertici Usa-Urss, a Helsinki – aveva potuto optare per il modello occidentale in ogni altra sfera: democrazia, libertà di espressione, stato di diritto, economia di mercato.

«Finlandizzazione» era diventato un termine che statisti ed esperti maneggiavano con rispetto, ammirazione, apprensione o paura. Negli anni Settanta, quando l’Urss tentò di alterare brutalmente gli equilibri strategici dispiegando i suoi missili SS-20 con testate nucleari contro l’Europa occidentale, vi fu il timore che l’ombrello nucleare americano perdesse valore. Una parte del movimento pacifista auspicava apertamente la «finlandizzazione» dell’intera Europa.

Negli anni Ottanta, quando il blocco comunista a Est scricchiolava sotto il peso di un disastro economico, politico ed etico, il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il presidente francese François Mitterrand negoziavano con Washington e Mosca i futuri assetti dell’Europa. Alcuni esperti di geopolitica s’interrogavano sullo scenario di una Germania «finlandizzata» come condizione per la sua riunificazione. Nel frattempo la Finlandia, quella vera, si stava avvicinando piano piano alla Nato. Senza fare chiasso, senza strappi clamorosi. Proprio come la vicina Svezia, si stava convincendo che la neutralità era una bella cosa da proclamare per placare l’Unione sovietica, però nei fatti non aveva senso. Se neutralità significa equidistanza, non si addice a Helsinki (né a Stoccolma). Non è equidistante geograficamente tra un’America lontana e una Russia troppo vicina. Non è equidistante come sistema di valori: la Finlandia è una terra di libertà e rispetto dei diritti umani. Non è equidistante come rischio strategico: l’unico potenziale aggressore è il suo vicino orientale, non ci sono altri pericoli all’orizzonte. Sicché sotto l’apparenza della «finlandizzazione», da anni Helsinki aveva già abituato le sue forze armate a consultarsi con quelle della Nato, a collaborare, a coordinarsi.

Poi è venuta la tragedia del febbraio 2022, l’invasione dell’Ucraina, che ha precipitato le cose. Il rischio russo non è più un’ipotesi, è diventato una realtà molto concreta e immanente, per chi vive a Helsinki. Politici e popolazione hanno deciso all’unisono: addio «finlandizzazione», era ora di sciogliere ogni residua ambiguità, aderire alla Nato, entrare a tutti gli effetti in un’alleanza difensiva contro l’unico pericolo dal quale i finlandesi devono difendersi.

In seguito all’adesione di Helsinki il confine russo-finlandese è diventata la più lunga frontiera terrestre fra l’alleanza atlantica e la Russia: 1.330 chilometri. Ai tempi della «finlandizzazione» le due frontiere calde Est-Ovest erano situate in Germania e in Turchia, oggi il baricentro si è spostato molto più a Nord. La Finlandia ha rapidamente adeguato la propria spesa militare. Helsinki ha perfino manifestato disponibilità ad autorizzare il dispiegamento di armi nucleari sul suo territorio, superando un antico divieto. La «finlandizzazione» nel suo significato originario è un ricordo del passato, il comportamento di Putin ha costretto questo suo vicino a correre ai ripari.

Però la memoria storica conta, e pesa. Tant’è che lo scenario della «finlandizzazione» dell’Ucraina conobbe un improvviso revival nell’Amministrazione Biden e in diverse capitali europee, proprio alla vigilia dell’invasione di Putin. Il 13 febbraio 2022 scrivevo sul Corriere di un piano in discussione a Washington, un elenco di concessioni a Putin. Biden aveva una sola priorità, stare alla larga dal conflitto, evitare ogni coinvolgimento. L’ex ambasciatore di Barack Obama a Mosca, Michael McFaul, evocò un «grande patto con Putin per evitare la guerra». Due tra i maggiori think tank strategici ascoltati dalla Casa Bianca e le riviste geopolitiche dell’establishment americano, Foreign Affairs e Foreign Policy, si sforzavano di trovare compromessi da offrire a Putin. Tra questi c’era proprio una «finlandizzazione» dell’Ucraina. Spuntava anche l’ipotesi di un grande negoziato con Putin per concordare con lui varie garanzie sulla sicurezza della Russia, sul modello degli Accordi di Helsinki nella seconda metà degli anni Settanta. Tutto ciò era musica soave alle orecchie degli europei, tedeschi in testa: all’epoca il cancelliere era Olaf Scholz e non si sognava nemmeno di bloccare il gasdotto Nord Stream 2 (in perfetta continuità con i suoi predecessori Gerhard Schroeder e Angela Merkel).

Ora il termine «finlandizzazione» lo si sente pronunciare di rado in Occidente. Di sicuro invece piace molto a Mosca, e al di là del termine la sostanza che esso evoca. Prima o poi, ammesso che il negoziato diretto Putin-Zelensky abbia davvero inizio, qualcosa di simile a una «finlandizzazione» tornerà sul tavolo, da parte russa. Questa è una delle ragioni per cui nel dialogo fra Trump e gli europei è molto utile avere qualcuno che viene da Helsinki ed è portatore di una memoria storica precisa, dettagliata, su tutti gli aspetti della «finlandizzazione» nella sua versione originaria. Tanto più che Stubb, come tanti leader di Helsinki prima di lui, ha una conoscenza approfondita della minaccia russa. L’intelligence finnica è spesso stata preziosa per gli americani.

Poi, siccome con Trump l’aspetto personale non è mai assente, aiutano anche altri dettagli: il finlandese Stubb ha studiato in America, parla l’inglese perfino meglio di Merz… e gioca a golf molto bene.

Fonte: Federico Rampini | Corriere.it

 

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