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Albert Speer, l’architetto di Hitler. “La sua battaglia con la verità”

Gitta Sereny e Albert Speer, più di trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sono seduti alla grande finestra della casa dell’architetto di Hitler ad Heidelberg. La giornalista chiede conto all’interlocutore della sua cecità di fronte alla malvagità del Führer, quando nel 1941 diede il via dell’invasione della Russia. Speer racconta di aver sentito Hitler parlarne nel giugno 1940 con gli alti gradi militari. Ma «nel rinnovato entusiasmo per l’edilizia che caratterizzò il resto dell’anno e nell’atmosfera tranquilla di Berlino e Berchtesgaden, mi disse di aver dimenticato quelle parole», annota Sereny. In quella «meravigliosa estate calda» del 1940, seguita alla conquista della Francia, «Speer non era il solo a pensare che Hitler e la sua Germania in festa stessero vivendo un periodo di “estasi”. C’erano vittorie in terra e ancora pace nei cieli sopra le città tedesche, e c’era fiducia nella debolezza di tutti gli avversari, passati, presenti e futuri».

Albert Speer. La sua battaglia con la verità è un’indagine serrata sulla fascinazione per il male che coinvolse un’intera generazione tedesca anche nei suoi elementi migliori. Sereny lo pubblicò nel 1995 (in Italia uscì nello stesso anno da Rizzoli con il titolo In lotta con la verità) e ora Adelphi lo ripropone a trent’anni di distanza in una nuova edizione (pagine 1.030, euro 39,00; traduzione di Valeria Gattei). L’infatuazione collettiva non vacillò davanti agli orrori, ma poi si tramutò in un incubo per la città tedesche bombardate. Quelle stesse città alle quali Speer aveva contribuito a dare un nuovo volto. Anche se Hitler, oltre a quelle di architetto, aveva intuito la doti organizzative di quel giovane e lo aveva fatto ministro per gli armamenti. Propaganda ed economia bellica sono stati, infatti, elementi legati a doppio filo con urbanistica e architettura.

La giornalista britannica di origini ungheresi, seguendo il processo di Norimberga, era rimasta colpita dalla compostezza dell’imputato Speer, che «ascoltava immobile e attento con il volto impassibile, a eccezione degli occhi scuri e intelligenti». L’ex ministro del Reich aveva scampato la forca ed era stato condannato solo a vent’anni di reclusione per l’utilizzo di lavoratori forzati (gli Zwangsarbeiter, con i quali la Germania ha iniziato a fare i conti solo 50 anni dopo la fine della guerra). Nel carcere di Spandau, Speer iniziò una resa dei conti con il passato che lo portò a scrivere milleduecento pagine di memorie. Uscito di prigione nel 1966, pubblicò nei primi anni Settanta le Memorie del Terzo Reich e i Diari segreti di Spandau.

In quegli stessi anni Sereny lavorava a In quelle tenebre, libro intervista con Fritz Stangl, il comandante del campo di concentramento di Treblinka. Nel 1977, dopo un articolo sul “Sunday Times” in cui la giornalista confutava le tesi di David Irving sulla non conoscenza di Hitler riguardo alla soluzione finale, Speer la contattò e i due intrapresero una fitta serie di interviste. Il libro, iniziato dopo la morte di lui nel 1981, ebbe una lunga gestazione, perché Sereny (scomparsa nel 2012) da quelle conversazioni trasse lo spunto per un’indagine su tutto l’ambiente che circondò Speer e Hitler, tenendo ben presente la questione della Shoah, di cui si è a lungo occupata. Sereny allarga lo sguardo per non fare di Speer un caso isolato e per contestualizzarne le dichiarazioni, a volte sfuggenti. Molti degli interlocutori hanno apprezzato i tormenti di Speer, altri si sono sentiti a disagio, poiché «mettevano in luce la loro impotenza morale», sottolinea Sereny.

La giornalista, tra gli altri, ha contattato la famiglia di Speer, la sua segretaria e il pastore protestante francese Georges Casalis, cappellano di Spandau, che lo descrive come «l’uomo più tormentato che avessi mai incontrato. E quando lasciai Spandau, il più pentito». La ricostruzione scava anche nella mente dei protagonisti, avvalendosi di psicoanalisti che si sono cimentati nel caso Speer, da Erich Fromm, che suggeriva a Speer di cercare di pensare nel suo dialetto del Baden per far emergere la miglior versione di sé legata alla giovinezza, fino all’ipotesi di Alexander Mitscherlich (autore con la moglie Margarete del celebre saggio La Germania senza colpa) che attribuì l’attrazione reciproca tra Speer e Hitler a una latente pulsione omoerotica.

Sereny rievoca i traumi infantili che hanno portato Speer a un carattere indifferente a tutto, non empatico. Era nato nel 1905 in una famiglia altoborghese di Mannheim,.dunque, un gradino più in alto rispetto al borghese Joseph Goebbels. Fu il Gauleiter di Berlino nel 1932 a coinvolgere il giovane architetto nel progetto per la sede del locale Gau, l’ente amministrativo creato dai nazisti. Per questo conobbe Hitler in procinto di prendere il potere. Ne divenne il favorito, smentendo la proverbiale freddezza del capo del nazismo. Gli furono affidate la scenografia del raduno di Norimberga del 1933 e la ristrutturazione della Cancelleria, e molto altro. Speer divenne il punto di riferimento per tutti i progetti dei giovani architetti tedeschi ma non fu l’unico a essere nelle grazie del Führer. A insidiarlo fu Hermann Giesler, studente a Monaco come lui. Il massimo della rivalità si ebbe quando Hitler affidò al meno insicuro Giesler la ricostruzione di Monaco, la capitale del movimento nazista. La rivalità tra di due si risolse anche grazie a Fritz Todt, che conosceva entrambi, ma intervenne a favore di Speer. Alla morte di Todt, Speer divenne ministro per gli armamenti. Ma nei giorni convulsi nel bunker si allontanò da Hitler il quale non lo nominò neppure nel suo testamento politico e nell’ultima effimera compagine di governo. In tal modo probabilmente gli salvò la vita.

Speer riparò a Flensburg in un fiordo sul Baltico dove ebbe sede il brevissimo governo dell’ammiraglio Karl Dönitz (è appena uscito in Germania un saggio dello storico Gerhard Paul, il quale getta luce su quei giorni, poco indagati, del maggio 1945, che sancirono la fine del Terzo Reich). Lì venne arrestato dagli Alleati. Una parabola che lo ha portato per il resto della sua vita alla battaglia con se stesso e con la verità di cui si sostanzia il libro. Conclude Sereny: «Ho visto riemergere in lui il senso morale che aveva manifestato in gioventù. Mi è sembrata una sorta di vittoria il fatto che proprio quest’uomo, oppresso da un senso di colpa intollerabile e incontrollabile, abbia cercato con l’aiuto di un cappellano protestante, di un monaco cattolico e di un rabbino, di diventare un uomo diverso».

Fonte: Gianni Santamaria | FrancescoMacrìBlog.it

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