Parlando di risveglio religioso in Spagna, il fatto più sorprendente non è tanto che la cantante Rosalía abbia confessato, in un podcast di Radio Noia, di avere «un desiderio dentro che questo mondo non può soddisfare». Né che abbia parlato di quella «sensazione di vuoto» che, forse, è «lo spazio di Dio». Non lo è nemmeno il fatto che un film su una ragazza che vuole entrare in convento (Los Domingos, ndr) abbia vinto la Concha de Oro al festival di San Sebastián. Il fatto veramente miracoloso, semmai, è che, per la prima volta dopo tanto tempo, i quotidiani ABC ed El País siano tornati d’accordo su qualcosa!
Secondo entrambe le testate, la scelta di varcare la soglia di un monastero altro non sarebbe che una reazione di fronte alla società oppressiva, violenta e piena di rumore, quasi una scialuppa di salvataggio cui aggrapparsi quando si sente che la barca del mondo sta per affondare. Lo scriveva qualche giorno fa Ana Zarzalejos su El Español , un giudizio da molti condiviso e che fa emergere l’inquietante avversione a prendere sul serio quel «vuoto» di cui parla Rosalía e che lo scrittore Javier Cercas nel suo ultimo libro (El loco de Dios en el fin del mundo) descrive magistralmente come: «L’angoscia che mi accompagna sempre». Un’angoscia che «ha la forma di un nodo alla gola» e che, dice l’autore, «occupa dentro di me uno spazio tangibile», quello «spazio tangibile» che è «un’assenza tangibile», «l’assenza di Dio».
Fra la “tranquillità” condiscendente di ABC ed El País e il disagio di Cercas, propendo personalmente per l’inquietudine del celebre scrittore, che da quell’esperienza ammette di non essersi ripreso. Solo chi riconosce il proprio vuoto – non un orribile buco nero che nega la bellezza dell’esistenza, ma la constatazione che manca qualcosa, che portiamo dentro di noi domande che sfuggono – può cominciare a capire chi guarda a un abito, a un convento, come a qualcosa di più di una semplice fuga dal frastuono moderno. Oppure a un disco senza ridurlo a una mera operazione di marketing.
Qualcosa di «tangibile», dal latino tangibĭlis, che si può toccare, palpabile, materiale, concreto, che si può percepire in modo preciso. Questo dice il dizionario della Real Academia Española e lo scrittore di Cáceres ripete quella parola ben quattro volte. Non so se il direttore dell’Istituto Cervantes possa essere d’accordo con la definizione, ma se quell’«assenza» è tangibile, allora non può trattarsi solo di una bella idea o di una figura retorica: è qualcosa che stringe la gola, che preme sulla carne, insomma, che reclama di essere ascoltata. E un’«assenza» che si può “toccare” è, paradossalmente, una presenza che insiste, che non si lascia liquidare con quattro etichette sociologiche sbandierate in tutta fretta, né giocando i “jolly” dell’opportunismo o degli affari.
Sarebbe un dramma sprecare l’occasione per guardare in faccia il desiderio di infinito che tutti condividiamo nascondendolo sotto il tappeto del “già saputo”
Rosalía, quando osa chiedersi se quel vuoto sia «lo spazio di Dio», e Alauda Ruiz de Azúa, quando filma senza ridicolizzarlo il desiderio di una ragazza di entrare in convento, fanno proprio questo: ascoltano quell’«assenza», la lasciano risuonare. Sarebbe un piccolo grande dramma se in una Spagna così incline all’ostentazione sprecassimo l’occasione di guardare in faccia il desiderio di infinito che tutti noi condividiamo e lo nascondessimo sotto il tappeto di un “so già di che si tratta”.
Chi guarda Los domingos resta colpito dalla sicurezza con cui il personaggio palesemente più infelice del film dimostra il suo convincimento sul fatto che il convento non potrà renderà felice quella povera ragazza. Zia Maite – folle e divorata dalla rabbia e dalla disperazione costante, interpretata da Patricia López Arnaiz – non soffre tanto per l’ingresso di sua nipote in convento, quanto piuttosto per un’inquietudine profonda, dettata dalla pura e semplice possibilità che esista un luogo, una scelta, una compagnia che non rientri nelle sue coordinate di un mondo in frantumi. La sua unica certezza, in mezzo alla sua instabilità, è che lì dentro sua nipote sarà “totalmente” infelice. Eppure, ciò che il film mostra con indiscutibile maestria è proprio la “non felicità” di Maite, che invece da quel convento è fuori.
Dio mi guardi dal pensare che non si possa essere felici “fuori” da un convento, ma molto più della verosimile gioia dell’adolescente che vi entra, è evidente che la regista del film conosca infinitamente meglio il territorio dell’esaurimento, del rumore e dell’asfissia che non quello di un chiostro abitato. Non è un rimprovero, è un dato di fatto. Sappiamo documentare le nevrosi del mondo, ma ci costa molto di più considerare seriamente l’ipotesi che il desiderio di un’altra vita non sia fuga patologica, bensì forma concreta di una proposta di fronte al “vuoto tangibile” di cui stiamo parlando, l’inizio di una ricerca sincera che può trovare risposta al di là dei nostri piani e dei nostri ragionamenti.
Lo riconosce persino un quotidiano poco sospettabile di simpatie ecclesiastiche come Público. Uno dei suoi editorialisti, Israel Merino, afferma: «Non è irragionevole pensare che siamo entrati in una seconda era teocentrica a causa dell’incapacità dell’ateismo liberale di fornirci certezze». Zia Maite è il volto stanco di questa incapacità.
È come se, all’improvviso, quell’assenza che gli opprime il petto si scontrasse con una presenza inattesa, sconcertante, che non rientra nelle sue categorie di scrittore scettico e che sfugge a tutte
In questo senso, mi sembra una lettura piuttosto povera interpretare tutto questo come l’ennesima prova che «il mondo sta diventando più conservatore» e che sempre più persone cercano rifugio in valori o esperienze estetiche tradizionali. Decine di articoli, in questi giorni, si dedicano a speculare su questa ipotesi, ma a mio avviso ridurre la questione a questo significa continuare a muoversi in superficie. Il punto non è se il pendolo culturale oscilli a destra o a sinistra, ma se siamo disposti a lasciare aperta, anche solo con una piccola fessura, la possibilità di trovare una risposta reale a quel vuoto.
Tornando al confine del mondo, ciò che risulta più sconcertante nell’esperienza di Cercas non è che definisca la sua angoscia come una «assenza tangibile», ma che, quasi senza volerlo, si trovi costretto a fronteggiarla. Accetta un invito a viaggiare con papa Francesco in Mongolia – potrebbe sembrargli una sorta di ennesima trasferta professionale – e tuttavia ciò che vi trova sono i «danni collaterali» di quel viaggio sul suo stesso ateismo: una serie di tipi strani, che arriva a definire «lunatici», tra i quali spicca suor Ana, una suora keniota che vive da quasi dieci anni nell’immenso Paese asiatico. Lui stesso riconosce che non dimenticherà mai «la risata prodigiosa di questa donna (…) né l’oscurità del suo volto sotto la strana luce delle vetrate della cattedrale di Ulan Bator, né i suoi occhi, che non smettono di guardarmi come se fossi davvero un deficiente mentale bisognoso di affetto, come se il disturbato fossi io e non lei».
È come se, all’improvviso, quell’assenza che gli opprime il petto si scontrasse con una presenza inattesa, sconcertante, che non rientra nelle sue categorie di scrittore scettico e che sfugge a tutte: una donna che non possiede nulla, vive in un angolo gelido del mondo e tuttavia irradia una gioia che non si lascia ridurre né al carattere, né alla psicologia, né all’ideologia. Cercas probabilmente non si aspettava che niente e nessuno potesse parlargli di quel misterioso vuoto e, tuttavia, sotto forma di un “semplice” incontro umano, qualcosa comincia a destabilizzarlo. Questo – non l’apologia dei valori tradizionali, non un’estetica monacale più o meno cool – è il fatto cristiano: l’irruzione, in mezzo alla vita di una persona, dell’impossibile che accade e che, se siamo minimamente onesti, non possiamo liquidare con una battuta o con un paio di aggettivi sociologici. Alla fine del libro, dopo aver conosciuto padre Ernesto, la coppia Battsengel e Ganbaatar Sugarmaa, suor Ana e tutta quella piccola truppa di pazzi, Cercas si concede una frase che sembra pronunciata quasi sottovoce: «Mi dico che chissà, cose più strane si sono viste, e che forse, se avessi avuto un gruppo di amici come quello, sarei ancora cattolico e crederei nella resurrezione della carne e nella vita eterna». Non dice che crederà, non firma nessun atto di conversione; semplicemente lascia aperta una fessura da cui possa entrare la Lux, come direbbe Rosalía. Ciò che gli manca è un luogo umano in cui quella assenza tangibile trovi una compagnia alla sua altezza, dove la possibilità che esista una risposta sia reale e non sembri assurda, ma minimamente verosimile.
Forse qui sta anche la chiave per comprendere Rosalía, il film Los domingos e tutte le Maite e gli adolescenti bisognosi di oggi: non si tratta soltanto di constatare che tutti abbiamo dentro quel vuoto e quegli interrogativi che spesso ci inquietano, ma di affermare che è possibile trovare una risposta che parli la nostra lingua e che prenda carne in un gruppo di persone normali – una comunità, un’amicizia – dove il desiderio di qualcosa di grande non viene ridicolizzato né sfruttato, ma accolto e accompagnato. Per Cercas questa possibilità si è insinuata nel volto di suor Ana e dei suoi amici, nei quali ha intravisto un barlume di tutto ciò che desidera per la propria vita; per questo, pur proclamandosi incredulo, laicista militante e razionalista ostinato, si sorprende a pensare… «cose più strane si sono viste».
Alla fine, né l’abito spegne il vuoto né la domenica il rumore: il buco resta lì e gli interrogativi, grazie a Dio, non vanno in pensione. Ma a volte si produce una svolta imprevista: nel mezzo dell’incertezza e della sensazione di vuoto, incrociamo qualcuno che non cancella le domande, ma le abbraccia, le rilancia e le riempie di senso. Allora, la vita non consiste più nel fuggire dal rumore o nel tappare il buco, ma nel seguire quegli occhi che parlano della vera gioia.
Fonte: Alfonso Calavia | Clonline.org








