I militari di Kiev rilasciati dal Cremlino dopo un lungo periodo di detenzione conservano cicatrici profonde, nel corpo e nell’anima. Ecco le storie del loro ritorno in patria, spesso traumatico
Quando ha tirato la cerniera per aprire il sacco di plastica bianca con il corpo del militare, il medico forense per un istante s’è ritratto. Aveva gli occhi ancora aperti il soldato ucraino restituito con altre decine di corpi dei caduti in battaglia. Ma il fuciliere di una trentina d’anni non era stato ucciso in combattimento. Nessuna ferita d’arma, niente schegge da esplosioni. Addosso cicatrici da sevizie quotidiane, gli organi interni ridotti in poltiglia.
«Non sono casi isolati, ma indicano modelli ben documentati di tortura diffusa e sistematica», ha denunciato ancora una volta Danielle Bell, capo della missione Onu di monitoraggio per i diritti umani in Ucraina. Nei cassetti dove vengono raccolte le prove dei crimini ci sono anche i riferimenti a «personaggi pubblici della Federazione Russa che hanno esplicitamente chiesto trattamenti disumani, e persino l’esecuzione del personale ucraino catturato», si legge nelle atti degli investigatori. Tra questi, le registrazioni di «almeno 3 telefonate da parte di funzionari pubblici della Federazione Russa».
A Chernihiv i bombardamenti sono martellanti. Più di una ventina le esplosioni solo nella notte tra venerdì e ieri. Qui a nord di Kiev, tra pioggia battente e puzza di bruciato, convergono la frontiera russa e quella bielorussa, addosso al confine con la provincia di Sumy, dove Mosca sta tentando di spianare la strada a un corridoio per minacciare la capitale ucraina. Droni e missili non hanno risparmiato neanche gli uffici giudiziari. Da mesi si stanno celebrando alcuni dei processi agli ufficiali russi accusati di crimini di guerra.
L’alto commissariato per i Diritti umani dell’Onu (Ohchr) ha raccolto le prove dell’uccisione di «106 soldati ucraini catturati dalle forze armate russe tra la fine di agosto 2024, quando il numero è aumentato significativamente rispetto ai periodi precedenti, e maggio 2025». Nello stesso periodo sono state raccolte analoghe accuse per l’uccisione nelle fasi precedenti all’invio in una prigione di un soldato russo catturato dalle forze ucraine.
Serhii Dobrovolskyi, prigioniero in Russia dal 2023, era stato liberato a maggio di quest’anno. Neanche il tempo di riabituarsi a un letto vero, alla doccia calda, al buongiorno proferito da chi non imbraccia una spranga, che il 21 giugno era già morto, appena un mese dopo lo scambio di mille prigionieri per parte. Debilitato, il corpo non ha retto più. Perché alle braccia e alle gambe si possono mettere le protesi, ma quando gli organi interni sono compromessi, non c’è molto che si possa fare. Pochi giorni prima, il 16 giugno, era toccato a un suo compagno di torture, il 57enne Valery che durante i 39 mesi a fare il sacco da pugilato per i combattenti russi era anche diventato nonno. Da volontario aveva combattuto a Mariupol, dove era stato preso. Al ritorno Valery aveva raccontato ai figli d’avere resistito pensando a loro e per merito dei lunghi anni passati ad allenarsi nello Kyokushin, uno stile di karate: «Il mio corpo e i miei muscoli mi proteggevano». Il cognome invece lo ha condannato: Zelensky. Nessuna parentela con il presidente, ma immaginatevi dei torturatori russi che hanno per mano uno che si chiama come «il capo dei narco-nazisti ucraini», per usare uno degli appellativi che dal Cremlino arrivano fino a radio-caserma. I medici ucraini di Valery avevano parlato chiaro. Una spalla e un braccio erano da buttare, ma questo era niente. Sotto a cicatrici e articolazioni allentate, in realtà soffriva di una vasta serie di insufficienze degli organi interni.
Tornare in patria dopo mesi o anni di prigionia non vuol dire di aver superato il peggio. Anche Serhii Dobrovolskyi se ne è andato a fine maggio, poco dopo essere stato liberato. Sta al camposanto del suo villaggio nell’Est, nel grande lotto riservato ai caduti, tra coccarde e bandierine giallo-blu. Come Dmytro Shapovalov, di 32 anni, stessa fine pochi giorni dopo essere tornato a casa. Altri se ne vanno di propria scelta, senza clamore. Chi con un colpo di pistola sotto al mento, chi con un giro di corda intorno alla testa. «Peggio della trincea c’è solo la prigione», confessa il soldato Vlad, che vorrebbe tornare quanto prima laggiù, a finire il lavoro e regolare conti. Ma non è ancora il momento, gli dicono i superiori. Prende pastiglie per dormire. E vodka per non pensare troppo quando è sveglio.
Nessun ex prigioniero di guerra, secondo il diritto internazionale, deve essere obbligato a tornare in zone di combattimento. Da quando il conflitto sulla linea del fronte rasenta il corpo a corpo, da una parte e dall’altra ogni giorno c’è qualcuno che finisce in mano nemica. Anche questa settimana sul lato ucraino hanno catturato russi che all’esame delle impronte sono risultati già imprigionati nei mesi scorsi e poi scambiati. Agli investigatori internazionali hanno raccontato di non avere avuto scelta: «Non ci hanno neanche fatto visitare. I comandanti ci hanno insultato per esserci fatti prendere: “Tornate a combattere o farete la fine degli ucraini”». E tutti hanno capito che non alludevano alla «telefonata di Putin», la tortura ai genitali con i fili elettrici di un vecchio telefono russo da campo.
Nell’ultimo report, la missione Onu «ha documentato 106 casi di violenza sessuale legata al conflitto contro 94 uomini, 9 donne e 3 ragazze, perpetrati da membri delle forze armate russe, funzionari delle forze dell’ordine russe e personale penitenziario russo». Ieri arruolati nei battaglioni moscoviti per fede o per denaro. Oggi non serve chiedere altro del perché siano tornati in trincea.
Fonte: Nello Scavo, inviato a Chernihiv (Ucraina) | Avvenire.it