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Il dovere della speranza

In margine a un’intervista di Veneziani. La speranza va coltivata, non nasce dall’opera degli uomini, ma viene da Dio. In Italia come nel mondo

«Sono un uomo di fede. Ho la speranza», ha detto il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, concludendo una intervista al Corriere della Sera (18 luglio) in un giorno estremamente triste, poche ore dopo il bombardamento da parte dell’esercito israeliano dell’unica parrocchia cattolica di Gaza, raid che ha causato tre morti e diversi feriti.

Anch’io, nonostante quanto accaduto e quanto continua ad accadere, continuo a sperare. Nello specifico, spero che i due popoli, israeliano e palestinese, trovino modo di convivere, tenendo conto del fatto che entrambi hanno diritto di esistere. Sono pertanto un accanito sostenitore del diritto all’esistenza di Israele, del suo legame speciale con la Chiesa cattolica, così come il popolo palestinese ha diritto di esistere e organizzarsi meglio, liberandosi al più presto dal legame con i terroristi di Hamas.

Oggi appare ingenuo sperare tutto ciò, dopo decenni di conflitti e una guerra che non sembra finire, scatenata dall’atto terroristico del 7 ottobre 2023, con cui Hamas ha attaccato e ucciso oltre un migliaio di civili inermi dentro i confini di Israele.

Tuttavia sperare si deve. Ma che significa sperare? Pongo la domanda perché il tema della speranza sembra stia scomparendo anche in coloro che a diverso titolo hanno rappresentato per decenni un argine a quelle ideologie, come l’illuminismo e il marxismo, che avevano monopolizzato e immanentizzato l’idea di speranza nell’epoca della modernità. Il fallimento di quelle ideologie, però, invece di dare entusiasmo a chi le aveva combattute, sembra avere definitivamente eliminato dalla scena pubblica ogni speranza. Dalle ideologie forti e invadenti si è così passati al relativismo del “pensiero debole”. L’ultima espressione di questo stato d’animo è un articolo di Marcello Veneziani su La Verità del 18 luglio, dove il saggista che per mezzo secolo ha rappresentato coerentemente il pensiero della destra scrive con molta amarezza che non si sente più motivato a continuare questa battaglia, perché «troppe cose non sono cambiate, e mai cambieranno, pur con l’avvento di un governo di destra». Poi, probabilmente, Veneziani continuerà a scrivere mettendo da parte questo suo sfogo, ma credo valga la pena fare una riflessione sul punto, senza peraltro la minima intenzione di volere “fare la morale” a qualcuno.

La speranza non è soltanto il frutto di uno sforzo umano. Questo vale certamente per il credente, perché la speranza è una virtù teologale che proviene da Dio, perché si fonda in Dio e riguarda le “cose ultime”, la vita eterna. Ultimamente, il testo più bello sulla speranza è stato scritto da Benedetto XVI con l’enciclica Spe salvi nel 2007.

Tuttavia la speranza ha a che fare anche con la vita terrena, in ogni sua dimensione. Sperare in un mondo migliore non soltanto è lecito, ma è necessario per il bene comune. In questa prospettiva la speranza è strettamente legata alla politica, nel senso che per costruire il bene della Polis bisogna prima conoscere in che cosa consiste e, poi, volere il bene della comunità. Questo “bene comune” però, non assomiglia in nulla a quello auspicato dalle ideologie, che vorrebbero “calare dall’alto”, sulla società, il loro progetto ideale. Il bene che nasce dalla speranza è un “bene arduo”, difficile, che necessita di tanto tempo perché si fonda sui cambiamenti culturali ed esistenziali di molti uomini, tanti e tali da fare cambiare l’orientamento della società intera.

Si può dire che si comincia a intravvedere una speranza quando comincia a cambiare il “senso comune” di una società, cioè il modo di pensare e di vivere di parti significative della stessa. Si può parlare di speranza che comincia ad avverarsi quando, per stare “dentro” la modernità, si danno segnali di abbandono dei postulati delle ideologie (per esempio in tema dei principi fondamentali, vita, famiglia e libertà) e molte persone, famiglie e comunità, cominciano ad accostarsi, invece, ai valori del diritto naturale. Ma, per tornare al tema iniziale, si può sperare anche in un “bene comune” nelle relazioni internazionali, frutto di un modo diverso di accostarsi allo ius gentium, al diritto naturale applicato ai rapporti fra gli Stati.

I grandi cambiamenti nella storia, nel bene e nel male, sono avvenuti attraverso importanti conversioni, cioè cambiamenti radicali nel modo di pensare e di vivere di popolazioni che hanno accolto un nuovo messaggio ideale. Così si è diffuso il cristianesimo, lentamente, costruendo poi nei secoli la civiltà cristiana, che si è realizzata progressivamente dall’Editto di Milano dell’imperatore Costantino, nel 313, proseguendo per circa mille anni. La politica e le istituzioni hanno certamente aiutato, basti pensare appunto a Costantino, ma il vero cambiamento comincia nei cuori degli uomini, si trasmette di famiglia in famiglia e soltanto poi arriva a toccare le istituzioni.

Ci vorranno secoli per un mutamento anche giuridico, se pensiamo a quando Carlo Magno fu incoronato imperatore nella Notte di Natale dell’800. Il marxismo ha compiuto un percorso simile, se pensiamo che il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels è del 1848 e soltanto nel 1917 trovò una realizzazione politica duratura con la Rivoluzione russa. E tutti sappiamo quanto “distruggere” una società (come fece il comunismo) è molto più facile che costruirla (come invece fece il cristianesimo).

Per questo mi pare inadeguato il richiamo di Veneziani alla delusione che gli proviene dal fatto che, dopo mille giorni di un governo della destra, nulla sia cambiato rispetto a prima. Come può un governo cambiare in pochi anni una società dove per secoli è penetrato un morbo ideologico in modo così profondo? È veramente un compito dei governi fare penetrare le ideologie nella società, come hanno fatto illuminismo e marxismo, contro cui si è opposto proprio questo governo, il primo conservatore della storia italiana, cercando di arginare proprio quella deriva ideologica?

Detto questo, nessuno vuole non vedere quel che di più e meglio avrebbe potuto fare e che appunto speriamo farà questo governo, ma non attribuiamogli poteri salvifici che non ha, non vuole e non potrebbe avere, proprio in ragione delle sue caratteristiche culturali.

Analogamente, per le relazioni internazionali ci vuole tempo e pazienza, senza la pretesa della “pace perpetua” che non si ha in questo mondo, ma anche senza pretendere di risolvere i problemi con la soppressione dell’altro. Con chi non ammette l’esistenza di un popolo e ne vuole la scomparsa, non ci può essere dialogo.

Fonte: Marco Inernizzi | AlleanzaCattolica.org

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