Sabato scorso, 10 ottobre, abbiamo accolto con sgomento la notizia di una lite sfociata in gravissimi atti di violenza che ha coinvolto alcuni studenti dell’Istituto Professionale Ruffilli della nostra città. Scrive Martina commentando la vicenda: «Mi viene da dispiacermi per questi ragazzi, perché se un ragazzo pensa di avere un motivo valido per accoltellare un suo amico non ha capito niente della vita, ma allo stesso tempo che vita può vivere se lo ha pensato?». Sgomento, tristezza e paura sono le reazioni immediate, seguite da tante domande: perché succede questo? Cosa porta dei ragazzi a gesti così violenti?
Il primo passo è guardare il contraccolpo che avvertiamo per quanto avvenuto. Scrive Gianluca: «Ho realizzato quanto la monotonia di questi tempi riesca a mangiarti i sentimenti e la tua vita». Corriamo il rischio di rimanere anestetizzati, con la vita che ci scivola sopra come se nulla fosse. Prosegue: «Noi rimaniamo il più delle volte indifferenti perché ormai abituati e dopo questi fatti sconvolgenti ritorniamo alle nostre vite come se nulla fosse». C’è una ferita in noi, molto più profonda di un fendente di coltello, che ci può portare alla violenza come all’indifferenza. Dice Renato Zero in una sua canzone: «Hai voglia a dire che si vuole pace, noi stessi siamo il campo di battaglia». La guerra non è solo a Gaza o in Ucraina, ma in noi, nessuno ne è esente.
Scrive Federico: «Tutto questo provoca in me due sensazioni. La gratitudine per aver avuto, a differenza di altri, la possibilità di intraprendere una strada utile per la vita, che mi aiuta ad avere uno sguardo critico verso ciò che mi succede e che mi sta intorno permettendomi di vivere con una guida davanti a me. E la tristezza. Sono triste e rammaricato per ciò che è successo, mi sorgono subito domande a cui non ho risposta: perché queste persone vivono male trasportate dalla violenza e dal rimorso? Perché io ho avuto e ho seguito una strada che queste persone non hanno mai visto davanti a loro? Cosa posso fare io davanti a questo?».
Chissà quanti di noi si sono fatti le stesse domande! Forse la violenza, di qualunque tipo essa sia, è solo il tentativo di risposta, disperato e scoordinato, al bisogno di felicità che sentiamo urgere in noi. Ognuno può diventare violento (nei gesti, nelle parole) quando la vita è una promessa non mantenuta, quando tutto sembra deluderci, quando le domande di felicità che abbiamo nel cuore non trovano risposta. Nella gratitudine di Federico per la strada percorsa c’è già un inizio di risposta alla domanda che ci coglie ogni volta che guardiamo in faccia il male così tanto presente nella Storia, dalla guerra che sconvolge la nostra quotidianità alla rabbia che degenera in violenza, fino al vuoto esistenziale che tanti nostri coetanei sperimentano.
Siamo abituati a pensare che davanti ad ogni turbamento, grande o piccolo, che il male provoca serva una soluzione o reazione immediata: una violenza? Troviamo il colpevole! Una guerra? Ci vuole il più forte che sopprima le ostilità! Una febbre? Tachipirina! Ma nell’esperienza che viviamo a scuola tra adulti e ragazzi abbiamo fatto una scoperta: esiste la possibilità di vivere intensamente, cioè pienamente, la vita tutta intera, attraversandola, con le sue ferite, le gioie, le fatiche e anche i risvolti più drammatici. Abbiamo incontrato amici che ci mostrano la possibilità di entrare con fiducia in ogni situazione, anche quelle che si vorrebbero evitare, testimoni di un amore capace di attraversare il male e di guardarci senza censurare nulla di noi. Proprio come accade ne I promessi sposi all’Innominato che, attratto da tutta la gente festante, si domanda: «Che allegria c’è? Cos’hanno di bello tutti costoro?». E poi, davanti all’abbraccio immeritato del Cardinal Borromeo, non dimentica tutto il proprio male ma prova un’impossibile pienezza: «Io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!». Per questo non abbiamo bisogno di un coltello per difenderci dalla realtà, perché tutto diventa occasione!
Scrive in proposito papa Leone XIV nella catechesi dell’8 ottobre, aiutandoci a fissare il punto: «Fratelli e sorelle, la risurrezione di Cristo ci insegna che non c’è storia tanto segnata dalla delusione o dal peccato da non poter essere visitata dalla speranza. Nessuna caduta è definitiva, nessuna notte è eterna, nessuna ferita è destinata a rimanere aperta per sempre. Per quanto possiamo sentirci lontani, smarriti o indegni, non c’è distanza che possa spegnere la forza indefettibile dell’amore di Dio».
Fonte: Gioventù Studentesca – Forlì | Clonline.org