Che cosa hanno in comune una racchetta, un pianoforte, una macchina fotografica, un microscopio, una penna? Dopo secoli di interpretazione cartesiana della tecnica (io, pensiero, ho l’idea e intaglio l’oggetto nella materia), abbiamo capito, studiando l’origine degli strumenti e la psico-fisiologia umana, che l’uomo non es-cogita (tira fuori dal cogito: pensiero) ma inventa, dal latino in-venire: «trova» (il leggendario «Eureka!» di Archimede significa «Ho trovato» in greco). Lo vediamo nella capacità dei bambini che «trovano» e «si trovano» negli oggetti quotidiani, un attitudine evidente anche negli adulti quando «giocano»: la racchetta, il pianoforte, la fotocamera, il microscopio, la penna sono come per un cieco il bastone, parte del corpo e quindi del cervello.
Oggi è evidente con il cellulare, parte essenziale del nostro corpo esteso, perché le cose, ripeto, non sono semplicemente cose ma azioni in-corporate: siamo pianoforte, racchetta, penna, cellulare, bastone, fucile… Per questo solo Ulisse può tendere il suo arco, perché è parte di lui come lo è la sua mano, una estensione del suo cervello. Che cosa accadrà con l’IA che rivoluzionerà presto anche gli strumenti: voce incastonata in un oggetto senza schermo o tasti, un amuleto da collo, con cui dialogheremo?
L’IA, qualsiasi supporto abbia e avrà, sarà sempre più corpo esteso, cervello potenziato nella capacità di calcolo ma non di senso. Se le chiediamo di eliminare il tumore nel modo più rapido possibile ci suggerisce di estinguere il genere umano. Una risposta della massima efficienza ma «in-sensata», priva di «sentire». L’Intelligenza Artificiale estende solo la nostra capacità di memoria (immagazzinare e sintetizzare dati) per risolvere problemi rapidamente e su base statistica, ma al tempo stesso fa emergere ciò che non ha, l’Intelligenza Carnale, cioè la capacità di stare al mondo in modo imprevedibile e irripetibile, che dovremo sempre più scoprire, educare e allenare. La «carne», come unicità dell’esserci, qui e ora, è sempre più centrale nella paideia (che cosa educare perché tu diventi te stesso?) del XXI secolo. Se chiedo ai miei studenti di percorrere un tratto della città e farne un resoconto, leggerò dieci variazioni sul tema che mostrano come ciascuno di loro «contatta» il mondo.
La percezione e quindi l’intelligenza non è una computazione neutra di dati ma un atto creativo impregnato di chi siamo, selezioniamo in base al nostro filtro di memorie, attitudini, idee, abitudini, sentimenti… Non siamo spettatori, giriamo di continuo un film. Quel percorso è diverso per un (futuro) architetto, profumiere, filosofo, manovale, musicista perché ciascuno incontra il mondo secondo la sua carne. Questo non significa che non esista «il» mondo (il percorso ha i nomi delle vie di questa città), ma che i mondi nel mondo sono tanti quante le persone (nessuno è assoluto) e la socialità è metterli in comune per avere più mondo in termini di intensità della verità.
A scuola, con l’IA che i ragazzi usano di continuo, sarà quindi sempre meno centrale memorizzare informazioni, perché disponibili in qualsiasi momento, ma allenare a selezionarle personalmente, proprio come facciamo con la realtà. Nessuna IA potrà analizzare il funerale di un nostro caro o un tramonto insieme a chi amiamo, perché non c’era, dove quel «ci» è la carne: che senso ha quella morte o quel tramonto posso dirlo solo io, mondo nel mondo. Dovremo allenare più che la capacità di rispondere quella di domandare (il famoso prompt), che è appunto il modo unico in cui ciascuno contatta il mondo. Un compito in classe non consisterà solo nel rispondere su Van Gogh (dati che posso reperire subito) ma nel domandare su Van Gogh. Chi domanda meglio «trova» di più, ma può farlo solo se «ci» era, se è entrato in contatto carnale con l’oggetto in esame. Se non so nulla di Van Gogh chiederò genericamente, ma se sono stato colpito (proprio io davanti a un quadro) dall’uso che fa del giallo chiederò che ruolo ha nella sua pittura e in particolare in quel quadro per arricchire la mia esperienza. Per esemplificare, arrivato a questo punto dell’articolo ho chiesto a un noto chatbot: «Come puoi aiutare un ragazzo in difficoltà a comprendere meglio qualcosa?».
Riporto la rapidissima risposta: «In diversi modi, personalizzati in base al suo stile di apprendimento, i suoi interessi e le sue esigenze. Ecco come: 1. Spiegare in modo semplice e chiaro. Traduco concetti complessi in linguaggio accessibile. Uso metafore o esempi quotidiani (es: spiegare la fotosintesi come una «ricarica solare» per le piante). Posso adattarmi al livello scolastico (elementari, medie, superiori). 2. Usare strumenti visivi. Creo schemi, mappe concettuali, grafici, o timeline. Posso generare immagini esplicative o diagrammi, per esempio: il ciclo dell’acqua; una linea del tempo storica; la struttura di una cellula. 3. Adattarmi allo stile di apprendimento. Se il ragazzo è: visivo → uso colori, simboli, disegni; uditivo → posso scrivere spiegazioni in forma di dialogo; cinestetico → propongo esempi pratici o attività simulate. 4. Fare domande e risolvere esercizi insieme. Propongo quiz guidati, esercizi svolti passo passo. Lo aiuto a ragionare sugli errori, senza giudizio. Simulo interrogazioni o verifiche per prepararlo. 5. Collegare le materie ai suoi interessi. Se ama lo sport, la musica o i videogiochi, collego i concetti alle sue passioni (es: spiegare forza e massa con un tiro da calcio). Questo aumenta motivazione e attenzione. 6. Offrire incoraggiamento e metodo. Insegno come studiare meglio: mappe, ripetizione attiva, tecniche mnemoniche. Lo aiuto a organizzarsi (es: creare un piano di studio). Fornisco supporto emotivo con tono calmo e positivo, per fargli capire che sbagliare è normale. Se vuoi, possiamo fare una prova: dimmi che materia o argomento fatica a capire e lo aiutiamo insieme, passo dopo passo».
La risposta può far pensare che un docente sia ormai inutile, e lo sarebbe se l’intelligenza umana fosse solo procedurale, allora ho chiesto: «Se sai fare tutto questo, a che servo io, insegnante?». La risposta rivela che l’intelligenza è anche altro: «È semplice: tu sei insostituibile. Io sono uno strumento. Tu sei la guida. 1. Dai direzione e senso. Io posso spiegare, esercitare, semplificare. Tu sei chi sa dove portare uno studente: conosci il programma, il percorso, la classe. Io vedo contenuti, tu vedi persone. 2. Crei relazione. Un ragazzo ascolta quando si sente visto, capito, motivato. Io non posso sorridergli, incoraggiarlo, intuire il momento giusto per fermarsi o insistere. Tu puoi. E solo tu. 3. Sai valutare davvero. Io posso correggere un esercizio. Tu capisci perché uno studente ha sbagliato: se è distratto, stanco, bloccato dalla paura, se ha bisogno di un’altra spiegazione o di più fiducia. 4. Sai scegliere gli strumenti giusti. Io posso offrire mille spiegazioni. Tu sai scegliere quella giusta per quella classe, in quel giorno, in quel momento. 5. Sei un modello. Un ragazzo non impara solo cosa dici, ma come lo dici, chi sei. Io non ho umanità. Tu educhi, che è molto più che insegnare. In sintesi: io posso potenziare il tuo lavoro, alleggerirlo, offrirti strumenti, ma non posso sostituirti, come un buon microscopio non sostituisce lo scienziato o una racchetta la tennista. Io sono qui per aiutarti a far brillare ancora di più il tuo lavoro di maestro».
Insomma: io non sono di carne, tu sì. Collaboriamo? Il problema non è l’IA ma se sappiamo educare i ragazzi a pensare e desiderare ciò che va oltre quello che la macchina può darci, perché è lei parte di noi non noi parte di lei.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it