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PUTIN CHIAMA LEONE XIV/ Prima di fermare i missili, occorre ricostruire i legami spezzati

A sorpresa, ieri, dopo una telefonata Trump-Putin e l’ammissione Usa che il conflitto non finirà presto, il capo del Cremlino ha chiamato papa Leone XIV

Nel cuore stanco di un’Europa che da più di due anni assiste alla guerra in Ucraina con una partecipazione sempre più muta, la notizia della telefonata tra Vladimir Putin e papa Leone XIV è arrivata come un sussurro inatteso. Non uno squillo retorico, non una svolta diplomatica annunciata in pompa magna, ma una mossa laterale, silenziosa, destinata a rimanere sullo sfondo. E proprio per questo, forse, la più interessante.

La nota diffusa dal Cremlino ha usato toni misurati ma decisi: si è parlato di “colloquio costruttivo”, di congratulazioni per l’elezione del Pontefice, di un’accusa chiara e grave rivolta a Kiev – quella di terrorismo – e, infine, dell’intenzione di “proseguire i contatti”. Nessun annuncio clamoroso, nessuna apertura formale ai negoziati. Ma chi conosce un minimo le geometrie del potere – e, ancora più, le liturgie del linguaggio diplomatico – sa bene che una telefonata del genere non è mai un atto casuale.

A colpire, infatti, non è tanto il contenuto, quanto il gesto stesso. È il fatto che, in un momento in cui la Russia dichiara esplicitamente di “non vedere il Vaticano come un’arena seria per i negoziati di pace”, il presidente della Federazione Russa scelga proprio la figura del Papa per far sentire la propria voce. E lo faccia all’indomani dell’attacco sul territorio russo attribuito a Kiev, in un contesto in cui ogni parola pesa come una minaccia o una speranza.

Non siamo davanti a un avvio di trattativa – e forse nemmeno a un’apertura vera – ma, piuttosto, a un segnale. Un gesto che fotografa lo stallo e il deterioramento profondo della situazione, ma che al tempo stesso richiama in gioco una figura anomala, inattesa, fuori dai giochi classici della geopolitica: il Vescovo di Roma.

Il Vaticano non è mai stato – né ha mai cercato di essere – un attore visibile dei grandi tavoli negoziali. Come ha giustamente osservato un analista su queste pagine, “non ricordo che il Vaticano sia entrato ufficialmente e visibilmente in negoziati di risoluzione dei conflitti”. La Santa Sede opera altrove, e con altri strumenti: non nella visibilità, ma nella persistenza. Non nella diplomazia dell’istantaneità, ma nella costruzione lenta di relazioni, nella custodia di spazi di contatto, nel tenere accesa una fiammella di dialogo anche quando tutto sembra crollare.

È questo, forse, ciò che Leone XIV sta facendo. E lo sta facendo in modo quasi impercettibile, ma costante. Chi lo conosce – e chi ha seguito con attenzione il primo mese del suo pontificato – sa che il Papa non ha mai ceduto alla tentazione di forzare la scena. Nessuna conferenza stampa roboante, nessuna autoinvestitura come mediatore, nessun protagonismo clericale. Solo un tessere umile e discreto, un lavoro di ago e filo che passa attraverso lettere riservate, incontri personali, contatti informali.

È evidente che la Santa Sede non può essere considerata, oggi, il luogo di un negoziato visibile tra Russia e Ucraina. Lo ha dichiarato senza ambiguità anche il ministro degli Esteri russo Lavrov: “È impensabile che una delegazione russa transiti per l’Italia, Paese schierato con Kiev, per recarsi in Vaticano”. La storia della diplomazia insegna che la neutralità geografica è ancora una condizione necessaria per i grandi incontri. Ecco perché la Turchia – con la sua ambiguità strategica, membro della NATO ma dialogante con Mosca – si sta candidando come nuovo snodo negoziale. L’occhio è puntato su Istanbul, dove potrebbero verificarsi, nei prossimi giorni, passaggi importanti.

Ma c’è un’altra forma di mediazione che non passa per i tavoli ufficiali, né per i comunicati stampa. È la mediazione delle coscienze. È quella che non cerca un palcoscenico, ma si muove nel silenzio. È l’arte – tutta evangelica – di custodire l’umano anche dentro l’inumano della guerra. Di tenere aperta una possibilità laddove tutto urla chiusura. Di restare presenti, anche quando nessuno ti invita.

La telefonata di Putin non è un segno di fiducia nella mediazione vaticana. È un riconoscimento, implicito, del fatto che c’è un unico attore sulla scena mondiale che può parlare a entrambi senza interessi diretti da difendere. E non è un caso che, parallelamente, Donald Trump – in uno dei suoi rilanci mediatici – abbia affermato di aver parlato con Putin sulla pace, pur riconoscendo che “non sarà immediata”. La parola “pace” è tornata nel vocabolario di chi fa la guerra. È un segnale minimo, ma non trascurabile.

Nel linguaggio antico dei Padri della Chiesa, la pace non era assenza di guerra, ma presenza di senso. Un equilibrio fragile tra giustizia e misericordia, tra verità e riconciliazione. Leone XIV, in questo tempo senza bussola, sembra ricordarlo a tutti: non basta fermare i missili, occorre ricostruire i legami spezzati. Non basta negoziare un cessate il fuoco, bisogna restituire un nome al dolore.

E per farlo, non occorre essere il protagonista. Basta esserci. Come un pastore che conosce le sue pecore e non si scandalizza né della loro miseria né della loro arroganza. La telefonata di Putin, in fondo, non dice molto su Putin. Ma dice qualcosa sul Papa. E dice che la tela della pace, nel silenzio, continua ad essere tessuta.

Fonte: Federico Pichetto | IlSussidiario.net

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