La diffusione crescente tra le nuove generazioni dei cosiddetti disturbi dell’attenzione (Add: Attention deficit disorder) merita una attenzione particolare. Un eccesso di stimolazioni al quale i nostri figli sono sottoposti continuamente dagli oggetti tecnologici e dalla nuova videocrazia consumistica — videogiochi, Instagram, TikTok, Facebook ecc — sembra nuocere alla dimensione necessariamente concentrata dell’attenzione. Il passaggio repentino da un breve video all’altro, la successione incalzante delle immagini, il bombardamento disordinato delle informazioni, sono, come le definirebbe Bernard Stiegler, “psicotecniche” che minano alle radici la possibilità di sviluppare un pensiero critico esercitando delle forme di captazione dell’attenzione tali da distruggerne la natura.
La dimensione dell’attenzione profonda (deep attention) viene infatti devastata da una hyper attention che frammenta il movimento del pensiero. Si tratta di una vera e propria cultura della sovrastimolazione che finisce per disturbare l’attenzione e, di conseguenza, la possibilità stessa del pensiero. L’iper-attenzione non è, infatti, una amplificazione dell’attenzione, ma la sua più totale disattivazione. È la stessa logica del consumo che prevale nel neo-liberismo, la quale, se spinta all’eccesso, finisce per consumare lo stesso consumatore. Tutto sembra scorrere in una superficie senza rilievi e addensamenti, senza pause e discontinuità.
L’apprendimento e la formazione stessa di una intelligenza critica sono le prime vittime di questo affollamento inaudito di stimoli. In primo piano è una vera e propria intossicazione cognitiva ed emotiva. Il deficit di attenzione non sorge clinicamente da una mancanza di stimoli, ma dalla loro moltiplicazione abnorme. Ne è una prova evidente l’angoscia che può invadere certi giovani di fronte alla separazione dai loro oggetti psicotecnici. Il vuoto e l’assenza che si palesano anziché essere vissuti come necessari per l’elaborazione di un pensiero generativo, diventano fonti insopportabili di stress o di assoluta noia.
L’iper-solleccitazione, e l’iper-captazione della loro attenzione, si rovescia così nel suo contrario rappresentato dal deficit di attenzione. È un effetto dell’iperattività smodata di quello che Lacan definiva come discorso del capitalista, il quale sfrutta la forza della pulsione per dissipare più che per costruire, per distruggere più che per collegare. Il vero sapere, quello in grado di contribuire alla formazione della vita, non sarebbe più quello dispensato dalla scuola, ma quello che si genera attraverso questa nuova videocrazia.
In gioco è la distruzione di quello che Bion definiva come l’apparato per pensare i pensieri. La psicotecnica ipermoderna sembra infatti dissolvere ogni apparato per favorire una versione fluida e senza bordi del sapere. In questo modo le informazioni e le stimolazioni percettive accelerano un processo di incorporazione non sostenuto da un contenitore adeguato. Tutto passa e sembra scivolare via senza lasciare né tracce né depositi mnestici significativi. È il carattere paradigmatico che assume lo zapping come nuova forma ipermoderna di accesso al sapere. In questo modo il flusso pulsionale del godimento va alla deriva generando un ottundimento di fondo che può, appunto, prendere le forme del deficit di attenzione. La cultura di massa si polverizza in questa nuova specie di consumo. I suoi miti e le sue icone si diffondono seguendo la logica orizzontale dello sciame più che quella verticale dell’idolo.
È quello che accade anche in riferimento all’intelligenza: lo stravolgimento dell’attenzione attraverso il bombardamento sistematico di stimolazioni allontana le nuove generazioni dallo sforzo del pensiero critico favorendo una versione solo performativa dell’intelligenza. Se le si confronta al potere centralizzato, decritto mirabilmente da Pasolini nei primi anni Settanta, della televisione, le attuali industrie culturali audiovisive si ramificano in modo inedito. La loro forza pervasiva ha travolto il vecchio sistema della comunicazione di massa fondato sulla centralità della radio e della televisione che non a caso i giovani non ascoltano né guardano più. In questo modo né la famiglia né la scuola possono pretendere di governare il carattere inarrestabile di questo flusso.
L’attenzione dei nostri figli viene continuamente sviata da dispositivi che distruggono la dimensione liberamente contemplativa del pensiero. Gli spazi educativi che la famiglia e la scuola rendevano disponibili sono travolti da una dislocazione del sapere che non è più a loro disposizione. Gli insegnanti lo sanno molto bene: la loro battaglia quotidiana ha come obiettivo primario, tanto elementare quanto cruciale, la possibilità di captare l’attenzione degli allievi di fronte a un collasso del dispositivo istituzionale e culturale che rendeva la parola dell’insegnante degna di attenzione in quanto tale.
Fonte: Massimo Recalcati | LaRepubblica.it