Ci sono ombre che fuggono nel deserto della Striscia, annientata dall’esercito israeliano. Si saranno salvate, almeno loro? Il Male che era in letargo ora pare avere rialzato la testa
L’ultima immagine da Gaza è una piccola ombra. Una bambina, forse sui sei anni, che tenta di uscire dalla sua scuola bombardata dall’Idf. La inquadra, da lontano, una telecamera: l’operatore stringe su quella figura esile che si muove, nera contro il riverbero delle fiamme. Cammina con difficoltà, come mettendo i piedi sulle macerie. Supera una finestra, poi un’altra, poi non la si vede più. É viva, è morta? Non lo sappiamo, al momento. Forse non ne conosceremo il nome.
Questi nomi, invece, li sappiamo : Yahya, Rakan, Raslan, Gubran, Eve, Revan, Sadin, Luqman e Sidra. Erano nove bambini fra i 12 anni e i sei mesi: fratelli, figli di Alaa al-Najjar, pediatra all’ospedale Nasser di Gaza, e di suo marito, pure medico. Alaa era di turno notturno all’ospedale quando hanno cominciato ad arrivare i corpi di molti bambini carbonizzati. Quasi irriconoscibili. Ma da qualcosa la donna deve avere capito: da un dettaglio, da un orecchino, da un brandello di pigiama.
Quei bambini, erano i suoi. Sette dei suoi, morti nel fuoco nella casa colpita dalle bombe. Due, ancora sotto le macerie. Nove figli su dieci ha perso in una notte Alaa. L’ultimo, Adam, undicenne è grave in ospedale, come suo padre. Nove figli sterminati, in una notte.
Mancano le parole. É una pena da figura biblica, da Giobbe, quella caduta addosso a una giovane donna. «Pianse come nessuna donna ha mai pianto»: viene in mente un verso di Charles Peguy che parla della Madonna, mentre segue il corteo che trascina Gesù al Golgota. Come si può piangere sull’annichilamento totale? Forse la ragione non regge, va in blocco, e la persona continua a respirare e a muoversi, come in automatico? O forse ci si attacca disperatamente ai due vivi, il marito, un figlio, nelle foto in ospedale con il volto e il corpo fasciato, totalmente ustionati?
Non ci sono parole per Alaa. Né per la donna che forse ha riconosciuto, in quella lieve ombra in fuga da una scuola che ardeva, sua figlia. Siamo entrati in un tempo in cui, sempre più spesso, ci mancano le parole. Doveva essere così, nei giorni della Seconda Guerra mondiale. Che si poteva dire delle città annientate, di Coventry sotto il fuoco tedesco, di Dresda sotto la Feuer Sturm, la tempesta di fuoco, provocata dagli Alleati?
“Coventrizzazione” è diventato una parola del vocabolario, ad indicare l’annullamento di una città. A guardare le foto di ciò che resta di Gaza, sembra si possa dire che Gaza è stata coventrizzata. E quei nove fratellini colti nel sonno, speriamo almeno, o che forse, almeno i più grandi, hanno cercato di fuggire, appartengono a una dimensione che dal ‘45 a pochi anni fa avevamo creduto irripetibile.
Da Gaza questa realtà ci ripiomba addosso, e l’insopportabile è che l’Esercito israeliano è fatto degli uomini, dei ragazzi di quel popolo che subì l’Olocausto. Molti dei quali, probabilmente, ubbidiscono a ordini che li sconvolgono, e che non dimenticheranno mai.
Il Male che sembrava finito in Occidente con il ’45, era solo in letargo. Ha rialzato la testa e si è mostrato. Non ci avremmo creduto. Anche per questo ora, di fronte a certe immagini, balbettiamo o taciamo. Non ci sono parole. Ci sono dei nomi però: Yahya, Rakan, Raslan, Gubran, Eve, Revan, Sadin, Luqman e Sidra I nove bambini di Alaa portati via in una notte. Quelli possiamo ripeterceli. Il nome della bambina in fuga dall’incendio della sua scuola non lo conosciamo. Che sia viva almeno lei, preghiamo: almeno la piccola ombra che scappava verso una porta, la piccola ombra che voleva vivere ancora.