L’aggressività giovanile è un fenomeno sempre più diffuso. Essa ha come obiettivo quello di danneggiare, ferire o controllare altri. Una ricerca della Georgia Regents University ha rilevato che nella maggior parte dei casi l’aggressività nella vita quotidiana è indirizzata con maggiore probabilità a familiari, amici, colleghi o partner. Nei giovani l’aggressività è in corposo aumento. Secondo il Rapporto ESPAD® Italia 2023 (secondo i dati raccolti dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr “Navigare il Futuro: dipendenze, comportamenti e stili di vita tra gli studenti italiani”) condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ifc), si evidenzia, infatti, una ripresa della violenza giovanile nel nostro Paese.
Il report analizza ogni anno i fenomeni di maggiore impatto sociale tra i giovani di età compresa fra i 15 e i 19 anni, monitorando in particolare dipendenze e comportamenti a rischio tra studenti e studentesse delle scuole superiori di secondo grado. Quasi il 40% degli studenti delle scuole superiori, di età compresa tra i 15 e i 19 anni, ha partecipato a zuffe o risse nel corso del 2023, pari a circa 990.000 ragazzi. La prevalenza è significativamente maggiore tra i ragazzi (46%) rispetto alle ragazze (34%). Inoltre, il 12% ha preso parte ad episodi di violenza di gruppo, spesso rivolti verso sconosciuti o conoscenti, con il 41% dei casi che ha coinvolto sconosciuti e il 33% conoscenti.
L’aggressività nasce, a mio modo di vedere da un difetto di empatia, e assume una connotazione distruttiva, trasformandosi in violenza, quando l’aspetto narcisistico, di negazione dell’altro, prevale su quello relazionale, di rapporto con l’altro. Quando siamo arrabbiati con qualcuno, lo prendiamo in considerazione, nell’atto violento, l’altro diventa un “oggetto” da sopraffare e danneggiare, senza considerazione dei suoi sentimenti e della sua umanità. Nei ragazzi predisposti a questa “disconnessione empatica” viene meno la capacità di inibire le proprie tendenze aggressive e possono verificarsi agiti violenti e “fuori controllo”.
Gli agenti educativi che possono intervenire sono, tra gli altri, indubbiamente la famiglia e la scuola. I primi testimoni si cercano in famiglia, poi nella scuola e nei luoghi in cui si contraggono le prime amicizie. La famiglia è il nucleo in cui si fanno le prime esperienze sociali; la casa è il primo luogo in cui si entra in relazione con l’altro e si ricevono risposte alle principali esigenze emozionali. Le emozioni che crescono con il bambino sono molto legate al tipo di rapporto che vive la coppia ed è in questo contesto che si sviluppa la capacità di amare. Accade che si dia poca importanza a questa realtà e i genitori, concentrati su sé e sulle proprie problematiche, spostano l’attenzione del bambino/ragazzo a banali occasioni di litigi che creano nel piccolo insicurezza e un’atmosfera che non favorisce una sua crescita serena ed armonica. Si assiste, oggi, ad una forte crisi della famiglia che rinvia costantemente a responsabilità personali, ma che è anche conseguenza di un lassismo sociale che non considera gli effetti negativi di una libertà che non ha regole. Sembra di usare un ossimoro, ma non è così perché la forza di una vera democrazia consiste nel rispetto di regole interiori che hanno la loro base nel rispetto della vita altrui. Questo rispetto impone regole di convivenza, di senso del limite, regole etiche che, come Kant insegna, l’uomo in assoluta libertà deve imporsi. La libertà dell’uomo esige il rispetto dell’altro, un rispetto che spesso sembra non esista più in questa società in cui si è diventati quasi incapaci di incontrarsi con l’altro, di vivere un rapporto vicendevole di unione e collaborazione. Si vive l’uno accanto all’altro, ma non con l’altro! Ognuno tende ad avere un suo mondo privato nel quale l’altro disturba se tenta di entrarvi.
Eppure il Cantico dei Cantici, nella sua esaltazione di un amore totale, insegna che il vero amore deve penetrare nell’intimità profonda dell’altro e da questa profondità deve ricevere la linfa vitale al punto che ciascuno si disseti totalmente. Non è facile riuscire in questo, ma è evidente che quanto più l’uomo diventa capace di vivere bene l’Amore, tanto più egli offre un modello positivo da seguire e il bambino matura serenamente facendo esperienza positiva di ciò che lo circonda. La distrazione dell’adulto nei suoi confronti, tuttavia, gli crea i primi problemi di adattamento alla realtà circostante. Siamo chiamati, in definitiva, ad essere testimoni se ciò che proclamiamo appartiene al nostro “credo”. Sentire dentro il “fuoco” dell’Amore è fondamentale perché altrimenti non passa all’altro, non si trasmette. Solo l’entusiasmo vivo arriva all’altro, altrimenti è una trasmissione di saperi che nulla ha a che fare con la trasmissione di emozioni e sentimenti. Tale differenza è dirimente e determinante. L’educazione vera, quella verticale, avviene attraverso l’esempio, tramite la gioia esperita, viatico per benessere e appagamento. Se viviamo nella gioia, doneremo gioia. La gioia è contagiosa. In educazione, il contagio della gioia salva e riporta alla vita!
Di modelli positivi dev’essere anche espressione la scuola, che diventa tanto più importante quanto più il bambino o il ragazzo che la frequenta non ha buoni esempi in famiglia. Se le maestre, i professori, si accostano al bambino e al ragazzo con un atteggiamento rigido e distante, questi iniziano a rifiutarli, somatizzano malesseri inesistenti, sentono gli educatori come estranei e avvertono il peso della frustrazione, che si rafforza ancor più quando non riescono a far gruppo e diventano vittima del bullismo di ragazzi più determinati, più grandi, apparentemente più forti.
È vero che la scuola deve dare regole di vita, dev’essere educatrice, ma non bisogna perdere di vista l’importanza che colui che è preposto all’istruzione deve dare, anche e comunque, all’educazione spirituale di bambini e ragazzi che entrano in relazione tra loro; bisogna, cioè, plasmare il rigore, dare discorsività alle regole, attenuare la rigidità, creare alleanza che, diversamente dalla complicità, ha come fine la conquista della fiducia dei bambini, la capacità di farsi ascoltare e di essere considerato esempio da seguire.
Da questa alleanza nascono il cameratismo, l’entusiasmo per lo studio, l’amore per la scuola che, da luogo di frustrazione, diventa luogo di crescita e formazione completa. I traumi si fanno, così, sempre più rari, l’aggressività diminuisce e si rafforzano le basi per uno sviluppo sereno e integrale della persona.
Nella mia esperienza di sette anni come docente di scuola superiore e in quella attuale di docente universitario ho avuto modo e riscontro tuttora come la relazione con lo studente sia centrale. Nelle aule della scuola superiore non sempre è facile creare subito alleanza perché i ragazzi vorrebbero complicità, tentando di piegare il docente alle loro pretese mettendolo alla prova, verificando quanto sia vera la sua disposizione d’amore nei loro confronti. Ne sono nati e nascono a volte atteggiamenti aggressivi e ribelli dietro i quali spesso vi è soltanto una richiesta d’aiuto, un voler dire al docente che ciò che si aspettano da lui è potersi sentire liberi di esprimersi secondo la propria visione del mondo. Quando non si riesce a creare alleanza, i ragazzi cadono in reazioni anche riprovevoli, pur di attirare su di sé l’attenzione e a volte lo fanno per richiamare, altre proprio per sentirsi dire in cosa sbaglino, perché sbaglino, e per avere degli orientamenti di vita di cui sono in ricerca.
A volte l’aggressività è lo specchio mal riuscito di una richiesta di attenzione. A volte l’aggressività è il grido urlato di un disagio non percepito.
Nel momento in cui, attraverso una comunicazione sana, i ragazzi giungono alla consapevolezza di avere tirato troppo la corda e capiscono che la pazienza del loro professore è arrivata al limite, con atteggiamenti, a volte di difesa, a volte di sfida, chiedono innocentemente o spavaldamente (citando un esempio a me capitato più volte a Roma): “Proffo c’ho fatto?”. In questa domanda v’è il momento vero dell’inizio di un rapporto non certo di complicità, ma di relazione, di alleanza appunto. “Proffo c’ho fatto?” è la domanda d’inizio di un cammino formativo insieme, di un percorso umano capace di aiutare lo studente, attraverso una risposta ad un tempo ferma ed empatica, a riflettere sul significato del suo atteggiamento e ad interrogarsi su di sé, su cosa si aspetti dallo studio, su quali obiettivi voglia raggiungere, e si pone in ricerca di una finalità che gli faccia comprendere cosa la sua condizione di studente gli chieda. Il ragazzo, se ben aiutato, comprende la necessità di trovare le giuste soluzioni per sopportare l’impegno quotidiano e addirittura per amare il “come” pervenirvi. In tal modo, la fatica, il lavoro, l’amore con cui avviene il tipo di relazione, divengono un esempio da dare, una testimonianza.
In tale ottica è bello potersi appellare al senso dell’umorismo che spesso squarcia i muri della relazione con sé, dipana ferite a volte troppo aperte e spiana la strada all’incontro con sé, passo primo per un proficuo incontro con l’altro. Anche Papa Leone XIV in tal senso ci ricorda. “Se dobbiamo tutti cooperare alla grande causa dell’unità e dell’amore, cerchiamo di farlo prima di tutto con il nostro comportamento nelle situazioni di ogni giorno, anche con una buona dose di umorismo”.
Infine, mi sembra bello poter citare queste preziose parole del celebre Psicanalista, dott. Carotenuto: “Se vogliamo creare noi stessi, dobbiamo incanalare le nostre energie non verso l’aggressività e la protesta ma verso quella forma di solidarietà profonda che è il confronto con l’altro, l’incontro autentico che può stimolare la ristrutturazione dei nostri contenuti interni”. Ancora una volta nell’incontro con l’altro si possono cogliere dimensioni che aprono la strada della nostra interiorità favorendo l’incontro con il nostro Io più profondo, a beneficio di una maggiore serenità nell’incontro con l’altro. È l’Io-Tu non aggressivo. È l’Io-Tu armonico, la relazione che abbandona l’aggressività, “incontra” la sintonia e si fa testimonianza, modificando, così, le coordinate del cammino e della crescita dei nostri giovani.
Fonte: Alfredo Altomonte | InTerris.it