Il patriarca latino di Gerusalemme: a Gaza situazione gravissima, si profila una tragedia umanitaria. Leone sarà voce autorevole della Chiesa nel mondo e la Santa Sede avrò un ruolo di facilitatore
La pace del mondo passa da Gerusalemme. «Certo, Gerusalemme è una sorta di paradigma di quello che accade nel pianeta: dal punto di vista religioso, politico, sociale, direi anche energetico», spiega il cardinale Pierbattista Pizzaballa. Eppure, avverte subito il patriarca latino di Gerusalemme, «qui la pace è la grande assente: non soltanto nelle nostre città e nella realtà quotidiana, ma anche nel pensiero. Resta soltanto un desiderio». Papa Leone XIV ha richiamato più volte il Medio Oriente nei suoi appelli a fermare le armi che hanno caratterizzato i primi giorni di pontificato e che appaiono come una delle cifre distintive del suo ministero petrino.
Un Pontefice che nella sua biografia unisce il Nord e il Sud del mondo e che ha già chiesto di costruire ponti. A cominciare dalla Santa Sede che nell’udienza di ieri ha definito uno spazio “a disposizione perché i nemici si incontrino”. «È ciò che la contraddistingue sulla scena internazionale – afferma Pizzaballa –. La Santa Sede non ha interessi di parte. Il suo unico interesse è il bene della famiglia umana. Se penso al nostro contesto, quello della Terra Santa, vedo la Santa Sede con un ruolo di facilitatore. Perché non si può trovare alcuna soluzione senza il coinvolgimento di molteplici attori: da quelli locali a quelli internazionali». Il cardinale è rientrato nella Città santa all’inizio della settimana dopo i giorni romani delle Congregazioni generali e del Conclave che ha eletto papa Robert Prevost. E ha già detto che una visita del Pontefice in Terra Santa potrebbe essere fra le sue priorità.
Eminenza, che cosa aspettarsi da Leone XIV?
Considero papa Leone una persona libera, sia nei gesti sia nelle parole, che infonde tranquillità. Ritengo che sarà un pontificato unificante per la Chiesa. E lui sarà la voce autorevole della comunità ecclesiale nelle realtà del mondo.
Il Conclave è stato breve. Un segno di unità?
Non è stata una scelta studiata a tavolino. Nessuno fra noi cardinali ha detto: “Dobbiamo arrivare all’elezione del Papa in tempi stretti, altrimenti chissà che cosa penseranno all’esterno…”. Tutto è avvenuto con estrema naturalezza, in un clima che già prima del Conclave, ossia durante le Congregazioni generali, era sereno nonostante le diversità di sensibilità e pareri.
Gli appelli di Leone XIV alla pace quale eco hanno in Terra Santa?
Qui l’urgenza è la fine della guerra: il che non significa la fine del conflitto perché ciò richiederà tempo per superare e curare le ferite lasciate da questi mesi di scontri e implicherà sforzi che contemplino l’ambito politico, quello religioso, quello sociale, quello economico. Tutti necessari per dare un futuro veramente nuovo alle popolazioni di questo angolo della terra.
La diplomazia è la grande assente?
Non so se è assente. Comunque non è stata finora molto influente. Penso che non siano mancati i contatti diplomatici che, però, non hanno avuto un reale effetto. Adesso si sta svolgendo la visita del presidente statunitense Donald Trump in Medio Oriente. I rumors si susseguono. Mi auguro che il viaggio porti a un cambiamento nella guerra di Gaza e non solo.
Gli spiragli, però, sembrano pochi al momento.
Spero che la fine della guerra non sia così distante. Anche perché, se dovesse continuare ancora, si profilerebbe una tragedia dal punto di vista umanitario, oltre a essere un fatto moralmente del tutto inaccettabile. A Gaza la situazione è ormai gravissima. Il cibo scarseggia. Donne, uomini, famiglie non sanno più come arrivare a sera. I bambini sono abbandonati a loro stessi e non hanno alcuna possibilità di istruzione. Praticamente la totalità della popolazione è sfollata. I bombardamenti seminano morte e distruzione. E aggiungono vittime alle migliaia di vittime che già si sono avute.
Preoccupazioni per il Libano?
Il Libano è una cartina tornasole per l’intero Medio Oriente. Adesso il Paese sembra aver voltato pagina. Ma in questa regione non è mai tutto come appare. Quindi attendiamo di capire se la nomina del nuovo presidente e i mutamenti pronosticati siano forieri di una svolta.
Teme il radicalismo?
L’estremismo è in gran parte connesso a forme di povertà economica, alla discriminazione, alle ingiustizie, al senso di umiliazione che si sperimenta. Spesso il fondamentalismo costruisce la propria forza su questi aspetti.
Leone XIV ha invitato a disarmare il linguaggio. Quanto conta la parola?
Il linguaggio è determinante: plasma il pensiero, alimenta la cultura, forma una mentalità. Quando ricorriamo a un linguaggio che disumanizza l’altro, vengono poste le basi per l’uso della violenza. Infatti a far nascere la violenza sono proprio le parole: soltanto in seconda battuta, c’è la dimensione fisica. Disarmare il linguaggio è un’espressione potente. E credo che sia uno dei contributi principali che la Chiesa potrà dare nei prossimi anni.
Ieri il Papa ha parlato di Chiese “martiriali” nelle zone di guerra e ha ringraziato i cristiani che non abbandonano le terre difficili, come il Medio Oriente.
È vero: noi resistiamo, nonostante le pesanti difficoltà. E non c’è solo la piccola comunità di Gaza che ormai è diventata uno dei simboli degli orrori della guerra, ma anche quelle in Cisgiordania che sono gravate da fardelli di ogni genere. Visitando le parrocchie del patriarcato, noto sicuramente stanchezza, ma anche tanto impegno e desiderio di andare avanti.
Ci sono anche guerre fra Paesi cristiani. Problemi sul versante ecumenico?
Qui in Medio Oriente le relazioni fra le diverse denominazioni cristiane sono molto buone. In questi giorni continuo a ricevere dai vari capi delle Chiese richieste per partecipare alla Messa di inizio pontificato in programma domenica. Negli ultimi anni c’è stato un progressivo e costante miglioramento.
C’è bisogno di riallacciare i rapporti con il mondo ebraico?
Direi che vanno rafforzati. Perché non si sono mai interrotti. Al massimo abbiamo avuto alcuni fraintendimenti. Certe questioni vanno chiarite, tenendo anche presente quanto accaduto negli ultimi mesi.
Che cosa segna il barometro delle relazioni con il mondo musulmano?
Il mondo musulmano è variegato. Le relazioni, almeno a livello istituzionale, sono molto cordiali ma non mancano distinguo che spesso sono dovuti più a fattori politici che a ragioni religiose.
Il Papa chiede una Chiesa missionaria. Come si vede questa sfida da Gerusalemme?
La missione è iniziata qui: non possiamo dimenticarlo. Se tutti noi siamo cristiani, è perché qualcuno è partito dalla Terra Santa per portare il Vangelo alle genti. L’annuncio è questione fondativa: se il cristianesimo non è annuncio, non è cristianesimo.
Il Papa ha esortato i vescovi latini a sostenere i cattolici orientali della diaspora e a preservare le loro tradizioni.
Un messaggio indirizzato alle Chiese d’Occidente. Qui siamo abituati alla pluralità dei riti che convivono senza problemi. Forse in alcuni Paesi del nord del mondo certe novità possono spaventare, ma vanno affrontate con fiducia.
Nella Chiesa si discute di sinodalità. Quale lezione dall’Oriente?
Il cammino sinodale che negli ultimi anni la Chiesa ha intrapreso non può essere assimilato alla sinodalità di matrice orientale. Il processo in atto ha a che fare con la partecipazione a diversi livelli nella vita della Chiesa.
Francesco ha avviato molti processi. Quali dovrebbero essere conclusi in modo prioritario?
È vero: ci sono processi che riguardano la vita interna della Chiesa e quelli del rapporto con il mondo. Vanno rafforzati e definiti in maniera più chiara.
Fonte: Giacomo Gambassi | Avvenire.it