Le tregue non bastano senza realismo e conversioni
Sembra che una tregua regga nel conflitto fra Iran e Israele. Ma per quanto tempo? La fine della guerra esplicita e dichiarata non significa la fine dello scontro, non quello politico, come avviene nelle società occidentali, ma quello comunque militare, terroristico, violento e senza regole.
Guido Olimpio sul Corriere della Sera del 25 giugno ha scritto su come continuerà questa guerra, attraverso quali armi verrà portata avanti, così come è avvenuto negli ultimi decenni. Dobbiamo risalire almeno alla nascita di Israele per comprendere le ragioni del conflitto in corso fra arabi ed ebrei e al 1979, alla rivoluzione fondamentalista che portò al potere Khomeini in Iran. In realtà dobbiamo risalire all’origine, cioè all’odio fra gli ebrei e i musulmani, che risale a Maometto e alle sue guerre, e all’Antico Testamento, che senza il Nuovo, senza cioè il compimento in Cristo, rimane legato all’esperienza del popolo di Israele in lotta contro tutti gli altri popoli che incontra sulla sua strada.
La questione non sembra prevedere una soluzione. Si tratta di due fondamentalismi contrapposti, incrementati in entrambi i casi dal nazionalismo, diventato fanatismo. Israele ha il diritto di esistere, così come i Paesi arabi e i palestinesi. Ma stentano a riconoscersi fra loro e addirittura in entrambi i campi vi sono quelli che non accettano l’esistenza dell’altro.
Qualcuno mi potrebbe dire che anche fra i cristiani è stato così e ancora oggi permangono rancori e odii da risolvere. Ma non è la stessa cosa. I cristiani non possono odiare, né escludere ad altri la possibilità di praticare la propria religione: se e quando lo fanno, sono in contraddizione con la loro fede. Non solo, ma i cristiani hanno il dovere di preparare delle soluzioni per garantire a tutti la libertà religiosa, che è un principio fondamentale del bene comune, quindi della dottrina sociale. E questo non è indifferentismo o relativismo, ma rispetto del diritto naturale.
Come si possa uscirne non lo so. I cristiani sono pochissimi in Medio Oriente. I fondamentalismi sono difficili da sconfiggere. Il cardinale Pizzaballa, intervistato da Repubblica il 25 giugno, ha detto che manca una visione politica. Sicuramente, ma mi sembra manchi anche una visione religiosa, cattolica, di approccio alla situazione. Manca una visione religiosa e politica, cioè una politica del perdono. Probabilmente per ebrei e musulmani è qualcosa di inconcepibile, per noi no. Ci vuole una politica culturale, anzitutto, che sappia disinfiammare l’odio che circola sempre di più.
Anzitutto l’odio contro gli ebrei. L’antisemitismo sta diffondendosi pericolosamente in ambienti insospettabili, magari favorito da certi atteggiamenti imprudenti dello Stato di Israele, ma è comunque un atteggiamento immorale. San Giovanni Paolo II ha pronunciato parole definitive sul punto: «… quanti considerano il fatto che Gesù fosse ebreo e che il suo ambiente fosse il mondo ebreo come un semplice fatto culturale contingente, a cui sarebbe possibile sostituire un’altra tradizione religiosa dalla quale la persona del Signore potrebbe essere distaccata, senza che essa perda la sua identità, non solo ignorano il significato della storia della salvezza, ma, in modo più radicale, mettono in discussione la verità stessa dell’Incarnazione e rendono impossibile una concezione autentica dell’inculturazione» (31 ottobre 1997).
Ma all’odio contro gli ebrei non si può rispondere con l’odio contro i nemici degli ebrei. Questi ultimi vanno combattuti con tutte le forze, soprattutto quando ricorrono esplicitamente al terrorismo, come per esempio Hamas. Ma l’odio porta all’odio, come la guerra porta nuova guerra. Bisogna sforzarsi di praticare una politica non ideologica e fondamentalista, ma realista e, appunto, fondata sul perdono. È difficilissimo, ma è l’unica strada per sradicare il male.
Qualcosa del genere viene auspicato a proposito del grande odio scatenato dalle guerre civili a causa delle ideologie, per esempio in Italia durante il secondo conflitto mondiale, o per ragioni etniche, come nella ex-Jugoslavia o in Ruanda negli Anni ‘90 del XX secolo: eppure neanche in questi casi si è già riusciti nell’intento. Il caso mediorientale è ancora più difficile, perché le convinzioni religiose si mescolano con quelle nazionalistiche, rendendo il tutto ancora più complesso. Però è l’unica politica possibile e mi pare sia quella auspicata dalla Santa Sede: «Guardiamo Gesù, che ci chiama a risanare le ferite della storia con la sola mitezza della sua croce gloriosa, da cui si sprigionano la forza del perdono, la speranza di ricominciare, il dovere di rimanere onesti e trasparenti nel mare della corruzione» (Leone XIV, 26 giugno). E comunque i miracoli sono sempre possibili, anche quelli che generano conversioni.
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