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«Chi ha davvero a cuore Gaza deve aiutare a disarmare Hamas»

«Il gruppo terrorista non consegnerà le armi volontariamente. Servono migliaia di soldati, con forza aerea, mezzi corazzati, intelligence e un mandato chiaro: tutto ciò che non aveva l’Unifil in Libano, insomma». Intervista a Jacob Stoil (Modern War Institute)

Ora che il cessate il fuoco tra Israele e Hamas è stato raggiunto, la tentazione internazionale e mediatica è quella di rivolgere altrove la propria attenzione. Ma è proprio adesso che inizia la fase più delicata per la Striscia di Gaza, che non avrà un futuro di pace se il governo palestinese provvisorio, previsto dal piano di pace in 20 punti di Donald Trump e composto da 15 tecnocrati, non potrà insediarsi e non avrà mano libera di operare. E perché questo accada «Hamas deve essere disarmata», dichiara a Tempi Jacob Stoil, direttore del dipartimento di Storia applicata presso il Modern War Institute, centro statunitense dedicato allo studio della guerra. «Ci sono molti paesi che dicono di avere a cuore il futuro di Gaza e quello dei palestinesi: adesso è arrivato il momento di dimostrarlo».

Dopo la firma del cessate il fuoco, sono riapparsi nella Striscia almeno settemila terroristi di Hamas. E subito sono iniziati scontri a fuoco, violenze, esecuzioni sommarie, guerra tra clan. Che cosa sta succedendo a Gaza?
Hamas sta cercando di riprendere il controllo del territorio. Più potere riusciranno ad accumulare in queste settimane, più rivali riusciranno a eliminare, specialmente se intenzionati a collaborare con le forze internazionali, e più saranno forti e in grado di opporsi efficacemente al disarmo.

L’impressione è che Hamas non abbia nessuna intenzione di deporre le armi.
Non lo farà certo di sua spontanea volontà, ma soltanto se verrà messa sotto pressione.

Da chi?
O da un governo indipendente palestinese, che per ora non c’è, o da una forza armata multinazionale.

Chi potrebbe prendersi la responsabilità di neutralizzare Hamas, impedire che si riarmi, proteggere il governo e garantire la sicurezza della popolazione e di chi sarà impegnato nella ricostruzione di Gaza?
È chiaro che un solo paese non può fare tutto questo, serve una forza multinazionale. In passato ci sono state operazioni simili di successo, penso a Interfet, la forza multinazionale che ha operato a Timor Est, o alla missione di peacekeeping della Nato in Kosovo, Kfor, o alla Unitaf in Somalia nei primi anni ’90.

Quali caratteristiche dovrebbe avere una simile forza per avere successo a Gaza?
Dovrebbe non solo essere in grado di difendersi e di garantire la sicurezza, ma anche di disarmare chiunque si opponga al cessate il fuoco. Deve avere la capacità di proteggere l’ingresso e la distribuzione degli aiuti umanitari e diventare una forza legittima agli occhi dei palestinesi e degli israeliani. Per fare tutto questo serve un esercito con a disposizione forza aerea, mezzi corazzati, intelligence e la possibilità di addestrare una forza di polizia.

Quanti uomini potrebbero servire?
È difficile fare una stima esatta, ma basta pensare a quanto personale serve per garantire polizia e sicurezza in un contesto semplice come quello di una città. E la Striscia di Gaza non è un contesto semplice. Parliamo di migliaia di effettivi.

L’Indonesia si è offerta di inviare 20 mila soldati, ma solo se l’operazione sarà coperta da un mandato Onu. Il Piano di Donald Trump, però, non prevede l’intervento dei caschi blu.
Una forza multilaterale può ricevere l’approvazione dell’Onu pur non essendo una missione delle Nazioni Unite, che in passato nella regione non hanno avuto grande successo. Basti pensare a Unifil e Unifil II in Libano: i peacekeeper dell’Onu dovevano disarmare Hezbollah e prevenirne il riarmo. Non sono riusciti a farlo, Hezbollah ha continuato a minacciare Israele e da quel fallimento è scaturita anche la guerra più recente in Libano. Israele, e non solo, non ha molta fiducia nelle operazioni di peacekeeping dell’Onu. Questo non significa che le Nazioni Unite non debbano avere un ruolo, ma la missione non potrà essere sotto la loro insegna.

Perché Unifil ha fallito?
Le ragioni sono diverse: non aveva un mandato abbastanza robusto, né regole d’ingaggio adeguate, né mezzi adatti. Mancava insomma la volontà internazionale di disarmare davvero Hezbollah e di affrontarla militarmente. I peacekeeper dell’Onu in Libano si sono ritrovati in una situazione davvero complessa: dovevano ripristinare il controllo del governo libanese sul territorio ma non avevano i mezzi per farlo.

La stessa cosa potrebbe accadere a Gaza?
In questo momento c’è una forte volontà internazionale di restituire sicurezza al popolo palestinese. Però le forze di intervento sono molto costose, sia in termini di soldi che di vite umane. Non sarebbe la prima volta che la buona volontà internazionale scema, dura poco e si esaurisce prima che il lavoro sia finito.

Hamas potrebbe essere tentata di mettere alla prova la volontà internazionale?
Hamas ha due strategie a disposizione: la prima è di opporsi subito con la forza all’eventuale esercito multinazionale che verrà schierato a Gaza. La seconda è di aspettare che la comunità internazionale perda pazienza e interesse per poi rialzare la testa.

Non è possibile ricostruire Gaza senza disarmare Hamas?
È possibile, però bisogna essere consapevoli che non ci saranno mai stabilità e sicurezza. Significa spendere miliardi per ricostruire Gaza accettando il rischio che venga distrutta nella prossima guerra.

Il difficile viene adesso insomma?
Sicuramente. Io penso che se la comunità internazionale agirà in modo unito e con determinazione, allora sarà possibile terminare il lavoro. Ci sono tanti paesi che dicono di tenere molto a Gaza e ai palestinesi: ora hanno la possibilità di dimostrarlo davvero.

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