Se si smette di vedere l’umanità delle persone, siano esse israeliane o palestinesi, si crea un blocco che interrompe l’empatia, la comunicazione e il supporto reciproco, che sono alla base del dialogo. E si dà luogo alle radicalizzazioni. Per noi l’Occidente dovrebbe rappresentare un modello da studiare, per come è riuscito a superare le divisioni dopo la seconda guerra mondiale. Invece spesso ha sostenuto la polarizzazione della società mediorientale in cui vivo apparendo incapace di comprendere la complessità, riducendo tutto alla generalizzazione di “israeliani contro palestinesi” o “palestinesi contro israeliani”. Quel “noi-contro-voi” va però smantellato, non supportato.
A Gerusalemme, c’è un punto in città vecchia dove il quartiere musulmano, quello cristiano e quello ebraico si incontrano e dove le lingue si mescolano. È quella la Gerusalemme che conosco e in cui voglio vivere. Aner Shapira, ucciso il 7 Ottobre da un’esplosione, mentre stava trasportando una bomba a mano fuori dal bunker per salvare la vita di altri giovani che erano andati a un festival musicale, era di Gerusalemme e scriveva canzoni dal significato profondo. Una di queste, che ho messo nella mia playlist, si intitola “Colomba” e dice: «Per anni, ho sognato di vedere tutto intorno a me tranquillo, ma non c’è riposo nel mio Paese per nessuno… Sono cresciuto così, non c’è niente di nuovo. Qualche morto in più, non sei esausto?».
Sì, siamo tutti esausti, perchè questa guerra ha portato via il meglio della nostra società, persone come Aner, come il suo amico Hersh Goldberg-Polin, che sognava una “Gerusalemme per tutti”, e che è stato rapito, torturato e ucciso in un tunnel a soli 23 anni. Eppure ci rimane la virtù della speranza. Il rabbino Jonathan Sacks diceva: «L’ottimismo è una virtù passiva, la speranza una virtù attiva. Non serve coraggio per essere ottimisti, ma ci vuole molto coraggio per sperare». È questa virtù che noi giovani vogliamo coltivare.