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Terra Santa: «La speranza di noi giovani»

Nel giorno della liberazione degli ostaggi israeliani e del rilascio di quasi duemila detenuti palestinesi, la testimonianza di una liceale di 17 anni che vive a Gerusalemme.

Gerusalemme, ottobre 2025. Dopo due anni di guerra, finalmente è arrivata la notizia dell’accordo. Lo attendevamo, chiedendoci ogni giorno quando sarebbe finito questo tormento che ha logorato le vite da entrambe le parti. I ragazzi della mia età sia palestinesi sia israeliani stanno crescendo vedendo e vivendo soltanto il dolore. Negli ultimi mesi, sono stata a tanti, troppi funerali di persone uccise. Alcune di loro erano ostaggi, cugini di alcuni amici miei, altri erano parenti di amici di famiglia, massacrati alla fermata dell’autobus, durante un attentato terroristico.

Siamo una generazione che inevitabilmente crescerà con il trauma della guerra. La maggior parte dei miei compagni di classe consuma regolarmente ansiolitici, soprattutto coloro che hanno perso un membro della loro famiglia. A Gaza, a sole poche ore di macchina da Gerusalemme, altri ragazzi della mia età stanno vivendo nella tragedia più assoluta, provando le stesse paure, la stessa ansia, la stessa angoscia straziante per la perdita inconsolabile di amici e parenti. Non è così che dovrebbe crescere una persona. Si dice sempre che il futuro sarà migliore, ma – in questa parte del mondo – l’ottimismo, anche per un ragazzo, è un lusso.

Questi due anni non sono stati facili: quando aprivo i social media notavo con stupore che l’Occidente parlava della guerra come se fosse una partita di calcio fra il Barcellona e il Real Madrid. Non c’erano più le persone, ma soltanto dei campi politici. L’Occidente si stava dividendo in tifoserie accanite, vedendo il mondo in bianco e nero. Il grigio è così dimenticato. Mi è stato tuttavia insegnato che il pensiero dicotomico è pericoloso, dato che sono le sfumature a fare la differenza. È lì, fra il bianco e il nero, che si possono trovare gli elementi per costruire una pace reale e duratura.

«A Gerusalemme, c’è un punto in città vecchia dove il quartiere musulmano, quello cristiano e quello ebraico si incontrano e dove le lingue si mescolano. È quella la Gerusalemme che conosco e in cui voglio vivere»

Se si smette di vedere l’umanità delle persone, siano esse israeliane o palestinesi, si crea un blocco che interrompe l’empatia, la comunicazione e il supporto reciproco, che sono alla base del dialogo. E si dà luogo alle radicalizzazioni. Per noi l’Occidente dovrebbe rappresentare un modello da studiare, per come è riuscito a superare le divisioni dopo la seconda guerra mondiale. Invece spesso ha sostenuto la polarizzazione della società mediorientale in cui vivo apparendo incapace di comprendere la complessità, riducendo tutto alla generalizzazione di “israeliani contro palestinesi” o “palestinesi contro israeliani”. Quel “noi-contro-voi” va però smantellato, non supportato.

A Gerusalemme, c’è un punto in città vecchia dove il quartiere musulmano, quello cristiano e quello ebraico si incontrano e dove le lingue si mescolano. È quella la Gerusalemme che conosco e in cui voglio vivere. Aner Shapira, ucciso il 7 Ottobre da un’esplosione, mentre stava trasportando una bomba a mano fuori dal bunker per salvare la vita di altri giovani che erano andati a un festival musicale, era di Gerusalemme e scriveva canzoni dal significato profondo. Una di queste, che ho messo nella mia playlist, si intitola “Colomba” e dice: «Per anni, ho sognato di vedere tutto intorno a me tranquillo, ma non c’è riposo nel mio Paese per nessuno… Sono cresciuto così, non c’è niente di nuovo. Qualche morto in più, non sei esausto?».

Sì, siamo tutti esausti, perchè questa guerra ha portato via il meglio della nostra società, persone come Aner, come il suo amico Hersh Goldberg-Polin, che sognava una “Gerusalemme per tutti”, e che è stato rapito, torturato e ucciso in un tunnel a soli 23 anni. Eppure ci rimane la virtù della speranza. Il rabbino Jonathan Sacks diceva: «L’ottimismo è una virtù passiva, la speranza una virtù attiva. Non serve coraggio per essere ottimisti, ma ci vuole molto coraggio per sperare». È questa virtù che noi giovani vogliamo coltivare.

 

Fonte: Hili Carmon | Clonline.org

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