Vacanza viene da vacuus: vuoto. A che serve questo vuoto? A metterci qualcosa di nuovo. Ma che cosa è veramente nuovo? Ciò che non si esaurisce e ti rinnova.
Può riuscirci un luogo mai visto, ma non è detto, perché se dopo averlo visto non ci torneremmo allora non era «nuovo» ma solo «una novità», come una parete colorata o un cibo troppo dolce che stancano presto. Nuovo non è sinonimo di più recente o di più desiderato, perché il più recente è solo il meno vecchio e sarà presto superato, e il più desiderato è solo il più invidiato e sarà presto sostituito. Il nuovo invece non invecchia e non è sostituibile, è sempre «nuovo» anche nel «di nuovo». Anche per questo in vacanza si torna spesso negli stessi posti, perché restano nuovi, come i classici. Omero è più nuovo del giornale, Beethoven del tormentone, Van Gogh di un video virale. Il nuovo insomma è ciò che si e ci rinnova perché è denso di vita, in esso la vita prende la parola senza mentire e senza chiederci nulla, e ci dà ciò di cui abbiamo bisogno per essere vivi e non solo in vita.
La vacanza è l’occasione per questo «nuovo». Se non lo troviamo torniamo più stanchi, perché il corpo non riposa se non riposa lo spirito (vale anche il contrario ma è più scontato accorgersene), e lo spirito riposa solo dove sentiamo di appartenere alla vita gratuitamente, uno spazio sacro in cui si riesce a essere senza dover dimostrare nulla.
E allora vacanza è una condizione, non un posto. Uno stato d’anima. Quale?
Esistono due tipi di disperazione: non riuscire ad accettare se stessi e non riuscire a diventare se stessi, nell’uno e nell’altro caso si è esiliati in casa propria, che è il contrario di riposare, cioè poter porre (-posare) di nuovo (ri-) l’io dentro se stesso, gioire di essere e di diventare. Il vuoto della vacanza è la prova, non la prova costume. Vacanza è sostare, «so stare» in me. E come? Attraverso il senso che dà senso agli altri cinque, il senso della meraviglia (da mirabilia: le cose stupefacenti).
Paul Piff, docente di psicologia all’Università della California, ha studiato il rapporto tra meraviglia e comportamento sociale. In uno dei suoi esperimenti ha coinvolto due gruppi di studenti: il primo è stato portato a vedere un bosco di alberi maestosi, il secondo un gigantesco edificio anonimo. Per un minuto. Alla domanda sul sentimento provato, quelli del bosco hanno parlato di «riverenza» (dal latino vereor, aver riguardo, da cui verità), quelli dell’edificio «indifferenza». I due gruppi sono stati poi sottoposti a un finto incidente: uno degli psicologi faceva cadere per errore un contenitore pieno di penne. Quelli del primo gruppo hanno raccolto tutte le penne, quelli del secondo hanno per lo più lasciato che lo facesse lui. È stato poi chiesto agli studenti quanto volevano essere pagati per il tempo dedicato all’esperimento. Quelli del primo gruppo sono stati meno pretenziosi del secondo, perché erano grati di aver fatto una cosa bella. L’esperimento mostra che un solo minuto di meraviglia rende meno egoisti e più connessi.
Perché? Perché la meraviglia aumenta la vita spirituale, cioè dove la vita ha senso di per sé e non in base alla sua utilità, come una mela di Cézanne, che non puoi mangiare ma solo amare. Il senso della meraviglia ci dà energia perché ci fa sentire legati al cosmo e agli altri, non per usare ed essere usati ma per gioire della presenza stessa delle cose e delle persone. Chi non prova mai meraviglia finisce per pensare solo a se stesso, si sente isolato e tende a voler possedere ciò che in realtà lo possiede, dipendere è infatti il surrogato dell’appartenere, non sono legato a cose e persone ma vi sparisco dentro: sostanze senza sostanza, stupefacenti senza stupefacenza.
Eppure basta un minuto di meraviglia per essere più liberi, connessi, generosi, e ricevere quel nutrimento spirituale che rinnova la vita. I grandi creatori erano persone guidate dalla meraviglia: Darwin rimaneva ore seduto a osservare il suo giardino, Cézanne ripeteva sempre lo stesso soggetto nei suoi quadri. Non si annoiavano perché trovavano il nuovo nello stesso, il «per sempre» nelle cose «di sempre».
Noi abbiamo invece bisogno di sorprese (chi fa spoiler oggi compie un reato), ma la sorpresa è ben diversa dalla meraviglia: la prima si esaurisce subito, la seconda invita ad andare oltre, è estasi (ek-stasis: uscir fuori rimanendo dentro, ri-posare, ci si abbandona ma invece di perdersi ci si trova di più, come in amore). Dalla meraviglia comincia ogni ricerca filosofica e scientifica. Ogni estasi, che provenga da luoghi, persone, passioni è una vacanza che accade dove lo spirito incontra l’inesauribile profondità della vita che non può essere con-sumata ma solo con-divisa: la meraviglia si riconosce dal fatto che crea legami, festa, memoria.
Un’esperienza memorabile è una esperienza che, ricordata, produce la stessa serotonina di quando la si è vissuta, un deposito di felicità a comando. Chi scambia la meraviglia per la sorpresa cerca dopamina, neurotrasmettitore della ricompensa immediata, delle dipendenze. La serotonina è invece quello della felicità, perché resta nel tempo.
Non è un caso che l’ecstasy sia la droga che opera sulla serotonina: aumenta le percezioni, abbassa le difese, facilita la socialità (era usata a scopo militare per non sentire la fame e far dire la verità ai nemici), ma lo fa manipolando il cervello in assenza di un rapporto con il mondo, e finisce infatti con l’inibire proprio la produzione naturale di serotonina.
Vacanza non è nullafacenza, per «riposare» ci vuole stupefacenza: la gioia che viene dalla vita che riceviamo o che creiamo.
Lo racconta bene una pagina di Orbital della scrittrice inglese Samantha Harvey in cui un gruppo internazionale di astronauti su una stazione spaziale compie 16 giri attorno alla Terra ogni 24 ore. Vedere ogni giorno per 16 volte buio e luce, paesaggi e città, mari e terraferma, li porta a innamorarsi «di nuovo» del Pianeta e di se stessi: «Nulla si perde a ogni nuovo giorno e ogni singola alba li lascia a bocca aperta. Ogni volta che quella lama di luce si spacca e il Sole esplode, per poi spargere la sua luce come un secchio che si rovescia sulla Terra, ogni volta che la notte diventa giorno in un minuto, ogni volta che la Terra si immerge nello spazio come una creatura che si tuffa e trova un altro giorno, giorno dopo giorno dopo giorno dalla profondità dello spazio, un giorno ogni novanta minuti, ogni giorno nuovo di zecca e infinito, e loro a bocca aperta».
Ogni giorno a bocca aperta, segno fisico della meraviglia, bisogno di trattenere un respiro che non si vuole finisca. La meraviglia è la porta quotidiana sulla vita eterna, dove lo spirito riposa, non perché viene dopo la morte, altrimenti non sarebbe eterna, ma perché è immune dell’essere consumata dal tempo.
Ne ho trovato la sintesi in una pagina del Volume del tempo I. L’enigma della scrittrice danese Solvej Balle, in cui a una donna «si rompe» il tempo lineare tanto che deve vivere sempre nello stesso giorno. Per lei il nuovo non è più ciò che verrà domani, ma ciò che trova e crea nel medesimo oggi, in particolare con il marito: «Ricordo quei giorni come i più felici. Di sempre. Mi sentivo amata. Mi sentivo amata sul divano del soggiorno e sul pavimento. Mi sentivo amata nel letto e quando sedevamo a tavola la sera. Non era un fatto insolito. Non era diverso rispetto a prima del diciotto novembre, solo più forte, e non avevamo niente da fare. Quello era un tempo che non ci sfuggiva. Era come il periodo in cui ci eravamo appena conosciuti, solo più intenso… Era una condensazione, una rete di collegamenti. Mi sentivo compresa. Dicevo frasi che venivano ascoltate, e ascoltavo le parole che venivano dette».
Anche qui la misura della gioia è la densità delle 24 ore. Sempre lo stesso giorno, eppure nuovo. Da questo punto di vista il vuoto delle vacanza è inesorabile, perché tutto ciò che nelle relazioni abbiamo trascurato o nascosto con l’alibi del tran tran ordinario, verrà fuori in modo eclatante: è ora di affrontarlo per ritrovare la gioia.
Vacanza allora non è né assenza dell’ordinario né presenza dello straordinario, ma apertura alla vita eterna. Vi auguro questo riposo che scaccia la disperazione di non accettarsi o di non diventare se stessi, perché solo il senso della meraviglia fa riscoprire i legami con la vita e ci fa sentire «di nuovo» voluti al mondo e quindi pieni di speranza e coraggio. Per nuove avventure.
P.S. La scuola è terminata e questo «ultimo banco» ce lo portiamo via, come condizione interiore che permette di guardare, domandare, scoprire, farsi i fatti propri, meravigliarsi, dovunque siate. Ci rivediamo a settembre.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it