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Il cambiamento climatico sta mettendo in crisi le teorie sulla popolazione

Smentito il legame diretto tra crescita della popolazione e aumento delle emissioni, vacillano le ipotesi nomalthusiane e della Transizione demografica. Serve innovazione energetica, non decrescita

Il cambiamento climatico e la demografia si sfidano a duello. Da un lato, la crescita della popolazione può accelerare il riscaldamento globale, dall’altro i cambiamenti climatici possono influenzare la dinamica demografica (mortalità, natalità e migrazioni). Un articolo uscito all’inizio del 2025 sulla prestigiosa rivista Population and Development Review fa il punto su queste doppie connessioni (Population and Climate Change: Considering Climate Change’s Demography’s Past and Future, di Kathrin Grace et al.). Le considerazioni espresse sono utili anche per i non specialisti, interessati a comprendere cause ed effetti del cambiamento climatico, oltre alle strade possibili per contrastarlo.

Per interpretare la demografia del passato, bisogna partire dalla teoria formulata da Thomas Malthus all’inizio dell’800. Prima della rivoluzione industriale, la crescita della popolazione era limitata dall’ambiente circostante: se la popolazione cresceva troppo, le risorse pro-capite diminuivano drasticamente, perché la produzione di cibo non poteva crescere allo stesso ritmo. Il clima era uno dei freni principali alla crescita delle risorse, specialmente quando si verificavano eventi che bloccavano o limitavano la produzione agricola. Gli esempi drammatici sono numerosi e ben documentati: ricordiamo solo quanto accaduto nel 1816, l’anno “senza estate”, che causò pesanti carestie in Europa e in Nord-America. Questo evento climatico estremo pare essere stato causato dall’eruzione del vulcano Tambora, nell’isola di Sumbawa dell’attuale Indonesia, avvenuta dal 5 al 15 aprile 1815, che immise colossali quantità di cenere vulcanica negli strati superiori dell’atmosfera. In quegli anni, inoltre, era ancora in corso la cosiddetta piccola era glaciale, periodo di raffreddamento generale del pianeta che, dal Medioevo, si protrasse fino al 1850. Anche nel passato, quindi, l’umanità era tutta interconnessa, anche attraverso il clima.

Con la rivoluzione industriale le cose cambiano. Negli ultimi duecento anni, il progresso tecnico è cresciuto più rapidamente della popolazione, che pure è passata da uno a otto miliardi da inizio ‘800 a oggi. Questo formidabile processo di modernizzazione da un lato ha permesso l’incremento della sopravvivenza, dall’altro ha indotto la riduzione della natalità: le coppie, per garantire ai figli di “salire sul treno” diretto verso una vita più prospera, hanno puntato sulla “qualità” della prole, riducendo la quantità. Questa “strategia riproduttiva” non aveva senso quando le possibilità di migliorare la propria condizione era bassa, la mortalità alta, il progresso tecnico lentissimo o inesistente, e la produttività stagnante.

A partire dai paesi oggi ricchi, il paradigma di Malthus è stato sostituito da quello, più ottimistico, della Transizione Demografica. Il severo equilibrio malthusiano (alta natalità necessaria per contrastare l’alta mortalità) è stato scardinato, e progressivamente sostituito da un nuovo equilibrio, a bassa pressione demografica, con alta sopravvivenza e bassa natalità. Oggi, nella media mondiale, la vita media ha superato i 73 anni, e nascono 2,2 figli per donna. Anche la pressione del clima sulla popolazione sembrava essere sempre meno rilevante, grazie alle nuove tecnologie di produzione agricola e – specialmente – grazie alla capacità di sopperire alle carestie con rapidi spostamenti delle eccedenze alimentari. Un bel libro pubblicato anche in italiano (Storia delle carestie, di Cormac O’Grada) mostra come nei due ultimi secoli gli episodi di carestia si sono progressivamente ridotti. Quelli avvenuti dalla metà del ’900 a oggi si sono trasformati in disastri solo quando non sono stati accompagnati da tempestivi programmi di aiuto, come accaduto – ad esempio – con i 300mila morti e 400mila rifugiati dell’Etiopia, in occasione della grande siccità del 1983-85.

Tuttavia, negli ultimi decenni Malthus – uscito dalla porta – è rientrato dalla finestra. Lo sviluppo basato sull’uso intensivo di combustibili fossili ha riversato in atmosfera quantità enormi di gas serra, impattando sulla demografia in due modi. Il primo, quello più facilmente misurabile, è attraverso l’incremento degli eventi estremi. Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi che dimostrano l’impatto sulla mortalità, sulle decisioni riproduttive e sulle migrazioni, di eventi come le bombe d’acqua, i grandi uragani, le bolle di calore, e così via. In secondo luogo, l’incremento medio delle temperature ha portato e ancor più porterà a spostamenti di popolazioni, a cambiamenti di stili di vita potenzialmente impattanti sulla sopravvivenza e sulla riproduzione. A questo proposito, la discussione fra studiosi è aperta: alcuni hanno una visione pessimista (potremmo dire neomalthusiana), mentre altri ritengono che le capacità di adattamento delle società umane porterà a minimizzare o almeno a rallentare gli effetti nefasti dell’innalzamento progressivo delle temperature.

Ma la crescita di popolazione impatterà negativamente sul cambiamento climatico? Cosa accadrà nel passaggio da otto a dieci miliardi di persone previsto dalla Population Division delle Nazioni unite per il 2060? Una visione negativa potrebbe sembrare scontata: più persone su questa terra non possono che aumentare le emissioni di gas serra, attraverso il maggior consumo di energia, di cibo, di acqua. Questa visione è integralmente condivisa solo dagli “estremisti” neomalthusiani. Gli studi più equilibrati – e amio avviso più solidi – mostrano che non c’è rapporto diretto fra entità/crescita demografica e quantità/crescita delle emissioni, prodotte in grande maggioranza dalla minoranza ricca (e demograficamente stagnante) dell’umanità. Inoltre, quanto sta accadendo nei paesi che hanno preso sul serio il contrasto ai cambiamenti climatici dimostra che non serve alcuna decrescita più o meno felice: accelerando sul versante della transizione energetica verso le energie rinnovabili e il risparmio energetico, le emissioni climalteranti possono diminuire anche se sviluppo economico e popolazione continuano a crescere.

L’articolo si conclude suggerendo di sviluppare ulteriormente gli studi demografici sul cambiamento climatico. Difficile non essere d’accordo. Tuttavia, troppo spesso si leggono studi molto ideologicamente orientati. I demografi, e non solo i demografi, dovrebbero affrontare questo tema con maggior distacco, abbandonando schemi definiti a priori, sia quelli malthusiani troppo pessimistici, sia quelli troppo ottimistici, legati all’idea delle magnifiche sorti e progressive della Transizione Demografica. Il cambiamento climatico ha spalancato (anche) per la demografia una terra incognita. Analizzando con attenzione e senza paraocchi quanto è accaduto nel passato e quanto sta accadendo oggi, sarà possibile meglio prefigurare il destino futuro della demografia mondiale. Così operando, anche la demografia potrà contribuire in modo non banale alle varie forme di contrasto ai cambiamenti climatici.

Fonte: Giampiero Dalla Zuanna | Avvenire.it

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