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La mia vita con Dodò, mio figlio, eterno bambino di 33 anni

Edoardo ha una sindrome rarissima. Nei nostri dialoghi silenziosi faccio domande e immagino risposte. Cerco un sorriso di Dio, come quelli che mi dona lui dicendomi che mi vuole bene

Parlo con mio figlio Edoardo Dodò e mi rispondo. Proprio come mi piacerebbe che lui facesse. Come immagino che farebbe. Addirittura cambio voce. Come fossi lui. Perché lui non può. Il suo cervello sgangherato non ci arriva. Al massimo un dolcissimo “sì” o un delicato “no”. Di più non riesce. Ma mi sorride. Mi manda un bacio. O mi stringe forte la mano. È il suo modo di comunicare.
Bloccato in quel suo eterno essere bambino, anche ora che di anni ne ha 33, appena compiuti. Niente di nuovo, lo sappiamo io e mia moglie da pochi mesi dopo la nascita. Ma da poco sappiamo anche cosa ci ha cambiato la vita. “Sindrome di Coffin-Siris di tipo 8 a trasmissione autosomica dominante”, può succedere con una frequenza pari allo 0,000003976 della popolazione generale. È toccato a noi. Proprio a noi. Perché? Una risposta non c’è, proprio come Dodò non risponde alle mie domande. Certo la scienza risponde, ci risponde. La scienza risponde sempre. La vita no. Quante volte col mio amico don Luigi Ciotti, che la sofferenza conosce bene, ho riflettuto sul perché del dolore, l’ho visto piangere davanti al troppo dolore, senza risposte. Mi ha spiegato che qualche volta si arrabbia con Dio per questi insopportabili e ingiusti dolori. Lo faccio anche io. Gli dico «basta!», quando Dodò si ammala (e non sa spiegare), quando inciampa (quanto è facile!) e si storce una caviglia. Vorrei avere risposte. Mi illudo di averle o provo a darmele da solo. Proprio come nei miei “colloqui” con Dodò.
Le passeggiate con lui sono silenziose, non quelle allegre e caciarone di un papà col proprio figlio, piene di “perché papà?”, “cosa è quello papà?”. Le sogno sempre, ci spero. Parole sulla scuola, sulla nostra Inter, su una bella canzone, su una fidanzatina. Parole comunque. Ma non è possibile. E allora gli canto le canzoni che preferisce, da “Re leone” alla “Spada nella roccia” e “Winnie the Pooh”. Provando a pensare cosa Dodò stia pensando nella sua testolina complicata. Ma non lo saprò mai. Purtroppo. Provo solo a immaginare. Di più non posso avere. E allora metto in scena un dialogo tra me e me stesso che recita la sua parte. Cerco di accontentarmi. Cerco un sorriso di Dio, come i sorrisi che mi dona mio figlio in risposta alle mie domande. Cerco una carezza, come quelle che dedico a lui.
Illusioni? Consolazioni? No. È la nostra vita, diversa ma non inutile, come alcuni illustri personaggi pensano. Certo da quando sono molto più a casa, perché pensionato pur se lavorante, le domande si accumulano ancor di più. Sull’oggi e, soprattutto, sul domani. Mi piacerebbe avere risposte certe, tranquillizzanti ma so che devo, dobbiamo, io e mia moglie, costruirle giorno per giorno. Con gli altri tre figli parliamo dell’oggi e del futuro, come si fa, o si dovrebbe fare, in ogni famiglia. Con Dodò le domande hanno solo risposte che costruiamo noi. Devono essere risposte solide. Spesso provo a pensare quanto sarebbe bello se Dodò mi rispondesse davvero. E allora insisto. «Come stai?». Mi guarda, sorride. «Beh..», sillaba. Una pausa, «…ne». Davvero va bene così. Deve andare bene così. Spero che capisca, forse mi illudo. Ma devo crederci. Ricaccio le lacrime. Ma non sempre ci riesco. E riprendo questo strano dialogo.

Fonte: Antonio Maria Mira| Avvenire.it

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