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«La vittoria di Israele contro Hamas è ancora lontana»

Se Hamas non rilascerà 10 ostaggi in cambio di 45 giorni di tregua, al termine della visita di Donald Trump in Medio Oriente, che durerà dal 13 al 16 maggio, Israele invaderà la Striscia di Gaza con lo scopo di «occuparla». La nuova operazione “Carri di Gedeone”, approvata lunedì dal gabinetto di sicurezza, rappresenta una svolta per Tel Aviv e ha diviso la società israeliana.

L’obiettivo è quello di trasferire di nuovo a sud la maggior parte dei 2,1 milioni di palestinesi residenti nella Striscia e dare la spallata finale ad Hamas, che ha resistito a 19 mesi di guerra e che detiene ancora nei tunnel che si estendono sotto Gaza 59 ostaggi, 24 dei quali dovrebbero essere vivi (anche se su tre di loro stanno emergendo forti dubbi).

Il comandante in capo dell’esercito, Eyal Zamir, ha dichiarato che occupare la Striscia significa esporsi al rischio della «perdita degli ostaggi», ma il governo Netanyahu ha deciso di andare avanti lo stesso, scatenando le proteste di parte della popolazione israeliana, che ritiene la liberazione delle persone sequestrate una priorità rispetto all’eliminazione di Hamas.

Il nuovo piano militare conferma che «la vittoria di Israele è ancora lontana», dichiara a Tempi Lazar Berman, corrispondente per gli Affari diplomatici del Times of Israel. Per il giornalista sarebbe «auspicabile una rapida vittoria» dopo quasi due anni di conflitto estenuante, ma il governo sembra «non avere fretta, anche perché non vuole decidere quale sarà il futuro della Striscia dopo Hamas».

Il premier di Israele, Benjamin Netanyahu
Il premier di Israele, Benjamin Netanyahu (foto Ansa)

L’anno scorso, ad aprile, Benjamin Netanyahu disse che Israele era «a un passo dalla vittoria». La nuova operazione “Carri di Gedeone” fa intendere che dopo 19 mesi di conflitto, la guerra sarà ancora lunga?
Non è chiaro che cosa intendesse Netanyahu con quel commento. Probabilmente si riferiva all’operazione di Rafah, che però non ha portato alla sconfitta di Hamas. La vittoria è ancora lontana.

Israele non aveva mai combattuto guerre così lunghe. La responsabilità è del governo?
Solo in parte. Il nodo degli ostaggi ha portato a lunghi cessate il fuoco e ha limitato il territorio in cui le Forze di difesa israeliane (Idf) potevano operare senza potenzialmente danneggiare la vita degli ostaggi. Bisogna anche aggiungere che l’amministrazione Biden ha intralciato ripetutamente i piani di Israele, offrendo su un piatto d’argento ad Hamas una ragione per continuare a rifiutare un accordo. Detto questo, l’andamento della guerra è soprattutto responsabilità del governo e dell’esercito.

Perché?
La campagna militare, anche al suo apice, è sempre proceduta in modo cauto per proteggere i soldati. Prima l’esercito ha preso Gaza City, poi si è spostato a Khan Younis e dopo mesi a Rafah. Ci sono stati interi mesi in cui a Gaza erano stanziati pochissimi soldati. L’impressione è che Israele non abbia per nulla fretta di arrivare da qualche parte – in parte per il problema degli ostaggi, in parte perché il governo non vuole decidere quale sarà il futuro della Striscia dopo Hamas.

Ora la situazione è cambiata?
Da marzo Israele ha un nuovo ministro della Difesa, un nuovo comandante in capo dell’esercito, Eyal Zamir, e ovviamente c’è un nuovo presidente alla Casa Bianca. Se Israele decide di inviare nuovamente decine di migliaia di truppe sarebbe saggio ordinare un’operazione simultanea, aggressiva, che cerchi di destabilizzare Hamas per portare a una vittoria che sia il più rapida possibile.

Un campo profughi palestinese a Gaza
Un campo profughi palestinese a Gaza (Ansa)

Il generale Zamir ha dichiarato che la nuova operazione potrebbe portare alla morte degli ostaggi. Il rilascio dei sequestrati è sempre stato uno dei due obiettivi di Tel Aviv insieme all’eliminazione di Hamas. Perché il governo israeliano ora sembra disposto a sacrificarli?
Non penso che gli obiettivi della guerra siano cambiati. Netanyahu ha sempre detto fin dal principio che la vittoria militare va di pari passo con il rilascio degli ostaggi. Ma più ci si avvicina alla fine del conflitto, più è difficile mantenere questa posizione. Penso che Israele abbia fatto un ottimo lavoro finora nell’ottenere il rilascio di quasi tutti gli ostaggi. Ma ora che sono rimasti in pochi, Hamas alzerà il prezzo per la loro liberazione.

Prevede un finale tragico?
A un certo punto il governo sarà obbligato a decidere se eliminare definitivamente Hamas o se liberare tutti gli ostaggi. Non siamo ancora arrivati a questo punto però e forse si può spingere Hamas ad accettare un ultimo accordo per rilasciarne ancora.

Come ha reagito la società israeliana all’annuncio dell’ultima operazione militare?
La società è divisa. Alcuni danno la precedenza al rilascio degli ostaggi, le famiglie in testa, altri si oppongono a qualunque decisione venga presa dal governo di Netanyahu. Questi gruppi si sono uniti contro il piano, sostenendo che danneggerà la vita delle persone sequestrate. La maggior parte degli israeliani, però, vuole vedere finalmente sconfitti gli uomini di Hamas che hanno massacrato i loro cari il 7 ottobre e spera che questa sia la volta buona.

Anche perché Israele continua a essere impegnato su più fronti.
Avendo una popolazione piccola e un esercito fondato sui riservisti, Israele ha sempre puntato a guerre brevi e risolutive. Questo governo ha cambiato completamente approccio. Non solo porta avanti una campagna militare lenta e graduale a Gaza, ma non sembra avere fretta di chiudere il fronte libanese contro Hezbollah. In più, in Siria si sta impegnando a difendere i druzi e a tenere le forze del nuovo governo siriano lontane dal confine. È probabile quindi che Israele aumenterà le operazioni anche in Siria.

Soldati dell'esercito israeliano durante un'operazione a Jenin, in Cisgiordania
Soldati dell’esercito israeliano durante un’operazione a Jenin, in Cisgiordania (foto Ansa)

L’Idf potrebbe ritrovarsi in difficoltà? Non è un segreto che sempre meno soldati rispondano positivamente alla chiamata alle armi.
I riservisti continueranno a presentarsi, nonostante lo sforzo richiesto alle famiglie, alle aziende e ai soldati stessi. Di sicuro la loro frustrazione aumenta, soprattutto perché vedono decine di migliaia di giovani ultra-Ortodossi che con l’aiuto di questo governo continuano a evitare la coscrizione. Ma questo problema non è ancora diventato una minaccia politica per il governo.

Da due mesi l’embargo israeliano non fa arrivare più aiuti umanitari nella Striscia. Secondo quanto annunciato da Netanyahu, i palestinesi verranno trasferiti nella zona di Rafah dove l’esercito con l’aiuto di appaltatori privati distribuiranno aiuti per togliere ad Hamas il potere di ricattare la popolazione con il cibo. Ma come verrà fatta la distinzione tra miliziani e famiglie bisognose?
Non sarà semplice. L’esercito non è addestrato per missioni di questo tipo e le organizzazioni internazionali si rifiutano di partecipare. Hamas farà di tutto per impedirlo. Se Israele capisce che la sua legittimità nel proseguire il conflitto contro Hamas dipende dalla sua capacità di assicurare ai civili innocenti accesso a cibo, acqua e medicine allora il piano potrebbe funzionare e diventare una priorità per l’esercito e il governo.

«Occupare Gaza» significa gestirla e Israele non lo fa da due decenni. La conquista della Striscia, dove la popolazione è ostile a Tel Aviv, non rischia di rivelarsi più un peso che un vantaggio?
Dipende da quanto resterà l’esercito. Israele ha imparato a sue spese nel sud del Libano che mantenere dei soldati in un territorio ostile dà al nemico la possibilità di organizzare una lunga campagna di guerriglia. E questo accadrà sicuramente se Israele resterà a Gaza per anni. Ma se guardiamo a quanto accade in Cisgiordania, qui Israele è riuscito a impedire che i gruppi terroristici crescessero fino ad assomigliare ad Hamas o Hezbollah e le vittime degli scontri sono relativamente poche. Se Gaza diventerà come la Cisgiordania – cioè governata da un esecutivo civile che non si coinvolge con il terrorismo, con una presenza militare israeliana permanente che garantisca calma relativa e prosperità – per Israele sarebbe lo scenario ideale.

Fonte: Leone Grotti | Tempi.it

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