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Diplomazia e demagogia nell’età dell’informazione

Ha ragione Paolo Soave: il presente ci dà più di una ragione per rimpiangere la visione realista del sistema internazionale di Hans Morgenthau, anarchico e basato sull’equilibrio del potere. Oggi è stata rimpiazzata da congetture empiriste, di dubbio valore filosofico, che ricordano gli obiettivi del Risiko: «controllare la totalità di Europa ed Asia», «distruggere le armate rosse» e così via. Tra le ragioni addotte per la fine della grande diplomazia, almeno una è interessante e problematica al tempo stesso: la centralità della comunicazione e il controllo dell’opinione pubblica sulle scelte politiche in ambito internazionale. La diplomazia, l’arte del negoziato, la sintesi tra interessi in conflitto, richiedono tutte una certa riservatezza.

Come è possibile, infatti, trattare la pace con qualcuno che abbiamo definito pubblicamente un «pazzo assassino»? Che credibilità ha, come interlocutore, un politico che in conferenza stampa si esprime come i troll dei social network? Dopo aver paragonato gli avversari ai nazisti, come spiegare ai cittadini che si sta discutendo con il nuovo Hitler? Dopo aver dichiarato che l’unica pace accettabile è frutto della vittoria, dopo centinaia di migliaia di morti, sofferenze, danni economici, con quale faccia dichiarare che l’obiettivo era irrealistico e che si sarebbe dovuto trattare? Ecco il motivo per cui il dizionario Treccani definisce “diplomatico” come «abile, accorto, pieno di tatto e di finezza», come nell’espressione linguaggio diplomatico.

La crisi della diplomazia non è circoscritta a uno stato di guerra che tende a farsi sempre più stabile e ubiquitario, ma riguarda un problema di fondo della democrazia liberale: il rapporto tormentato, viscerale, ambivalente, tra politica e informazione. Il conflitto tra la sfera diplomatica, necessariamente riservata, e quella informativa, che al contrario ha una dimensione pubblica, può portare a una conclusione esiziale: i giornali, i media di massa o le reti sociali possono divenire un intralcio e perfino un rischio per la pace e per la stabilità del sistema internazionale. Come negare, infatti, che è proprio questo genere di reti a diffondere le ideologie cui fa riferimento Soave? Sono i mezzi di comunicazione, tradizionali o meno, a diffondere slogan privi di valore scientifico: lo scontro di civiltà, l’opposizione Occidente/Oriente, il bellicismo del discorso politico e la militanza nei gruppi di opinione.

D’altronde, la guerra esisteva anche nel periodo clausewitziano, e non è certo una prerogativa della nostra epoca sciagurata. Da questo punto di vista, non c’è molto da rimpiangere: propaganda e demagogia affliggevano anche l’Atene di Tucidide, e preesistono, pertanto all’attuale sistema delle comunicazioni. Durante la Guerra del Peloponneso gli Spartani furono accusati di avvelenare i pozzi, gettandovi i corpi delle proprie vittime innocenti; la stessa accusa rivolta ai soldati tedeschi, che avevano invaso il Belgio durante la Prima guerra mondiale. Quella della propaganda bellica è storia della letteratura, non della radio, della televisione o di internet. Nemmeno oggi è davvero chiaro se le bufale si diffondano più rapidamente sui social o nelle chiacchiere.

Inoltre, le reti di comunicazione sono anche il luogo, positivo, dove si diffondono messaggi di pace e di critica, come quelli di Papa Francesco, e dove è possibile un esercizio fondamentale: assumere il punto di vista dell’altro, dell’avversario, per comprenderne i valori, le reali preoccupazioni e gli obiettivi, al di là dei rispettivi ritratti ideologici. Senza questo esercizio banale di immedesimazione e di empatia non si vincono nemmeno le partite a scacchi; men che meno si possono risolvere i conflitti mondiali. La soluzione al problema della guerra non è l’asservimento dell’informazione al potere, nella sua supposta funzione di sintesi dell’interesse nazionale; al contrario, questo genere di asservimento non fa che delegittimare l’informazione agli occhi dell’opinione pubblica, che già oggi l’identifica con la più becera propaganda.

Occorre dunque capire che cosa, entro la sfera della comunicazione, giochi la funzione del detonatore, per mobilitare gli artificieri. Bisogna distinguere, in primo luogo, tra quei discorsi che servono a convincere l’interlocutore e quelli che servono a delegittimarlo di fronte all’opinione pubblica. Bisogna distinguere il dialogo dall’arringa. Il dialogo e la diplomazia presuppongono due interlocutori disponibili a trovare un accordo; l’arringa presuppone due discorsi in conflitto, solo uno dei quali convincerà il giudice. Gli attori del dialogo sono due, quelli dell’arringa sono tre.

La funzione del giudice è, a dire il vero, la più fraintesa. Essa è solitamente assegnata, dalla gnoseologia pop del giornalismo, all’opinione pubblica. Nelle scorse elezioni USA, i candidati Kamala Harris e Donald Trump hanno discusso nelle consuete tribune elettorali televisive. L’ectoplasma dell’opinione pubblica si manifestava nei sondaggi e nelle pagelle degli esperti di comunicazione, i quali decretavano in genere la vittoria di Kamala Harris. Infine, come accade non di rado, gli elettori hanno votato per Trump. L’opinione pubblica ti dà ragione; gli elettori ti danno torto. Evidentemente, per “opinione pubblica” ed “elettorato” non si intende la stessa cosa.

L’errore di fondo della demagogia è quello di vedere nell’opinione pubblica una totalità integrale: un attore unitario, dotato di valori e di una volontà coerente; nelle urne essa si comporta, piuttosto, come una totalità partitiva: un insieme eterogeneo di idee, competenze, giudizi, non necessariamente coerenti tra loro. Nei dibattiti ci si rivolge all’opinione pubblica, ma non ai cittadini e ai loro problemi concreti: l’energia costa troppo, la tua azienda non investe in Europa perché produrre non conviene più, passi il Natale in cassa integrazione o vieni licenziato; il tuo stipendio perde potere d’acquisto; la tua piccola attività deve chiudere; non sai come spiegare la cosa ai tuoi figli; politici e tecnici ti chiedono di sacrificarti nel nome di entità astratte, come l’Occidente, o di valori generici, come la libertà e la sicurezza, mentre contribuiscono a destabilizzare un mondo fin troppo incerto e precario: il tuo mondo, l’unico che hai.

Gli elettori che votano per Marine Le Pen, per l’AfD, o per politici nostrani anche più inquietanti, non sono né mostri né imbecilli. Sono persone normali. Si rivolgono, col proprio voto, all’unica alternativa percepibile: non perché ne condividano fino in fondo i valori, ma per difendere i propri interessi materiali. Alle loro orecchie, parole come “libertà”, “sicurezza”, “diritti”, suonano ipocrite nella misura in cui esse vengono impiegate senza alcun rapporto con la loro esperienza quotidiana, con la fenomenologia del mondo della vita e i suoi problemi reali. Quest’incomprensione fondamentale della struttura della comunicazione pubblica da parte dei suoi stessi attori, politici e tecnici, finisce così per delegittimare l’idea stessa di democrazia. Al contrario, dalla diplomazia si può apprendere il dialogo, la dialettica e l’arte di adottare il punto di vista altrui, per un uso più efficace e più corretto dei mezzi di comunicazione.

Fonte: Francesco Galofaro*| Lisander.com

*Università IULM, Milano

 

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