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Il “Manifesto pedagogico” di Alberto Manzi

Una promessa lasciata in sospeso

Nel gennaio di quest’anno la Dott.ssa Cellamare, della redazione di INVALSIopen, mi ha proposto un’intervista su Alberto Manzi in occasione del centenario della sua nascita. Durante quel piacevole dialogo ci rendemmo conto che molti esempi che riguardavano il particolare modo di fare scuola di Manzi richiedevano approfondimenti che il breve tempo a disposizione non rendeva possibili. In quell’intervista avevo sintetizzato la strategia didattica del maestro Manzi con l’affermazione paradossale “insegnare le cose non è possibile”. Non intendevo certo sostenere che l’insegnamento, in generale, sia impossibile. Quello che intendevo, spero si sia capito, è che l’apprendimento non è un fenomeno a “effetto garantito”.

Se io mi preparo una lezione, mettiamo, sulla forza d’Archimede e vado in classe e svolgo la mia lezione a voce, magari aiutandomi con dei disegni o persino portando in classe una vaschetta con dell’acqua e degli oggetti da far galleggiare (o affondare), ebbene: è molto probabile che molti alunni dimenticheranno presto quello che hanno ascoltato. Forse ricorderanno un po’ più a lungo il momento in cui un oggetto è stato poggiato sull’acqua e l’eventuale “wow!” di sorpresa. Ma con tutta probabilità nella maggioranza di loro non si saranno sviluppate le connessioni tra le cose viste e la spiegazione verbale che abbiamo loro fornito.

Se avremo detto cose del tipo: «vedete ragazzi, l’oggetto riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del liquido spostato» è ben difficile che questa conoscenza si sarà integrata in quello che ogni bambino già sa del comportamento dei corpi immersi nell’acqua. L’unica didattica possibile è quella che coinvolge attivamente ogni ragazzo, chiamando in causa il suo modo di ragionare sulle cose.

Manzi diceva che per coinvolgere gli alunni bisogna far loro “vivere un problema”, far loro provare una “tensione cognitiva”. Ma, concretamente, come si fa?

In questo articolo vorrei provare a rispondere a questa domanda cercando così di completare gli accenni presenti nell’intervista esplicitando quali fosse per Manzi gli ingredienti indispensabili di una didattica efficace.

Il “Cartellone” del 1986

Alberto Manzi non amava fare teoria sulla scuola. Disse più volte che non esisteva un metodo per insegnare bene e, pur conoscendo in profondità il pensiero dei più importanti pedagogisti arrivò all’età di sessant’anni senza aver scritto nulla di pedagogia. Si dedicava invece volentieri in quella che oggi viene chiamata “editoria parascolastica”: quaderni con esercizi, domande, proposte di lavoro, indovinelli logici e linguistici, pensieri su argomenti vari con cui provocava il lettore con domande, spesso bizzarre. Credo che quello che gli faceva preferire il materiale parascolastico alla manualistica accademica fosse il fatto che i quaderni di lavoro arrivavano direttamente ai ragazzi e ai loro genitori.

Con questo stesso spirito Manzi si impegnò in una lunga collaborazione con un giornalino gratuito distribuito dalle Casse di Risparmio italiane che si intitolava “La Via Migliore”. Una testata storica che veniva distribuita in tutta Italia a decine di migliaia alunni per promuovere l’educazione al risparmio e, più in generale, la cultura. Ebbene, in quei fascicoli Manzi proponeva argomenti di studio nella consueta forma delle domande rivolte al lettore, dell’invito a esplorare, della sfida a trovare un errore o a risolvere un rompicapo.

Verso la fine degli anni ’70 Manzi cominciò a sentire l’urgenza di fare delle trasmissioni un po’ diverse dalla storica “Non è mai troppo tardi”. La scuola gli appariva inchiodata a uno schema trasmissivo ottocentesco. Spesso diceva che a scuola si perde una quantità di tempo in attività rituali che non lasciano alcuna traccia: spiegazioni, appunto, sempre verbali; esercizi meccanici, compiti a casa noiosi, ecc.

Era convinto che gli insegnanti, in perfetta buona fede, si prodigassero in lunghe lezioni, intervallate da domande retoriche che portavano gli alunni al più totale disinteresse. Molti insegnanti gli chiedevano un supporto per preparare il concorso magistrale oppure semplicemente per imparare a gestire una classe con attività che risvegliassero l’interesse dei bambini.

Sentì che era arrivato il momento di riflettere in modo più sistematico sul suo modo di fare scuola per offrire dei principi guida e delle strategie utilizzabili da chiunque altro. Da questa esigenza nacquero una serie di trasmissioni per il Dipartimento Scuola Educazione (DSE) della RAI che si svolsero dalla fine degli anni settanta alla metà degli anni ottanta. Nell’ultima di queste, che si intitolava “Educare a pensare”, Manzi presentò una serie di attività didattiche, svolte con gruppi di bambini di alcune scuole romane, compresi quelli del suo ultimo ciclo scolastico della scuola Fratelli Bandiera.

Nelle ultime puntate di Educare a pensare Manzi comparve con alle spalle un grande cartellone riassuntivo, scritto a mano da lui stesso, con una sintesi dei diversi passaggi necessari per promuovere l’apprendimento (vedi figura).

In quel cartellone Manzi si era sforzato di condensare tutto quello che serviva per fare scuola in modo efficace. Nella prima colonna aveva scritto con caratteri molto grandi: “FAR VIVERE UN PROBLEMA”. Era questo per lui l’ingrediente psicologico fondamentale per favorire l’apprendimento. In un certo senso i bambini imparano se sono messi in crisi, se avvertono che le loro idee non sono adatte a rispondere a una domanda di comprensione che loro stessi si pongono. In termini più tecnici Manzi parlava della necessità di creare una “tensione cognitiva”, cioè uno sforzo per adattare i propri pensieri a una particolare situazione.

Per anni ho cercato di recuperare quel cartellone che ricordo di aver arrotolato con molta cautela alla fine di una delle trasmissioni per poterlo riutilizzare. Sapevo che doveva stare da qualche parte, probabilmente a casa di Manzi, ma sfortunatamente non riuscii a recuperarlo. È probabile che fosse stato eliminato a causa delle dimensioni che lo rendevano particolarmente ingombrante.

C’era solo un modo per ricostruirne il contenuto: analizzare fotogramma per fotogramma le trasmissioni nelle quali Manzi lo utilizzava e ricopiarlo pazientemente. La prima persona che lo fepce fu la dott.ssa Lucilla Valeri er la sua tesi di laurea. Lo schema trascritto dalla dott.ssa Valeri mi è stato dato qualche anno fa dalla moglie di Manzi, Sonia Boni. Nella figura qui sotto è riportato il cartellone identico a quello scritto da Manzi.

Un tesoro nascosto

Se ci si prende il tempo di analizzare attentamente il cartellone ci si rende conto che si è di fronte a uno straordinario distillato della sua strategia didattica. Quello che colpisce di più è la connessione tra le fasi dell’azione didattica e i principi teorici che la sostengono.

Siamo di fronte a una sorta di Manifesto pedagogico di Alberto Manzi.

Potremmo ora chiederci: quali sono le dimensioni sottese da questa tabella composta da 24 celle (6 righe x 4 colonne)? Più precisamente: cosa rappresentano le righe e le colonne della tabella? In effetti Manzi propone questa tabella senza indicare né l’intestazione delle righe né quella delle colonne. Ci si trova così dentro una matrice concettuale (Manzi forse l’avrebbe chiamato “intreccio” di idee) con delle parole e delle frasi chiaramente collegate tra loro, ma senza l’intestazione delle colonne e delle righe.

Ho provato a ricavare, a posteriori, la struttura logica del cartellone di Manzi inserendo delle possibili intestazioni di tutte le colonne e le righe e la dimensione generale cui si riferiscono le colonne e le righe (vedi figura). Proviamo ora a leggerlo insieme.

Procedendo riga per riga (dall’alto in basso) Manzi propone una sequenza cronologica delle azioni didattiche articolata in 6 fasi:

  1. Condizione preliminare: Creare una tensione cognitiva
  2. Avvio: Cosa pensi su
  3. Ricerca: Fare
  4. Discussione: Discutere su…
  5. Aderenza alla realtà: Verifica
  6. Concettualizzazione: Formazione di un nuovo concetto

Procedendo invece colonna per colonna (da sinistra a destra) Manzi suggerisce:

  1. Le azioni da realizzare in classe
  2. Le finalità
  3. I percorsi da seguire e le modalità più efficaci
  4. I possibili approfondimenti

Il cartellone traccia quindi una sequenza cronologica e, allo stesso tempo, psicologica di un’attività didattica che sia in grado di insegnare a pensare mettendone in evidenza le ragioni e le finalità.

Alcune perle

Per apprezzare la ricchezza di questo schema ho evidenziato in giallo alcuni elementi di particolare interesse.

Ad esempio la raccomandazione di scegliere “situazioni aperte e molto complesse” che può sembrare strano con i bambini della scuola primaria ma non lo è affatto almeno per due motivi. Per prima cosa la realtà è comunque complessa. Se si porta in classe qualcosa di vero e concreto, fosse anche un semplice macinino per il pepe o un lombrico in una zolla di terra, è evidente che si tratta comunque di sistemi complessi (il lombrico più del macinino, certo). Inoltre se il nostro scopo è attivare in classe ragionamenti autentici e personali è certamente meglio proporre situazioni complesse che fare domande retoriche e spesso sciocche.

Altro esempio, nella quarta riga dall’alto, troviamo tre “imperativi fulminanti” sulla cura del linguaggio in classe:

“non si impara a parlare se non si parla”, “bisogna far parlare senza intervenire” e “contestare l’uso della parola imparata ma non capita”.

Infine, nell’ultima riga, Manzi ci propone una sintesi critica (e molto piagetiana) del concetto:

“il concetto non può essere presentato come si presenta l’oggetto; non può essere acquisito come si acquisisce una notizia. Ogni nuovo concetto aiuta a riordinare, pertanto e riesaminare ogni altro oggetto”.

Fonte: FrancescoMacrìBlog.it

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