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Qui non c’è futuro per nessuno

Reportage da Burj El Barajneh, il più grande campo profughi di palestinesi del Libano. Dove non c’è niente, se non povertà e disperazione

Burj El Barajneh, periferia sud di Beirut, è il più grande campo di profughi palestinesi del Libano. Di fronte c’è il quartiere di Haret Hreik, dove è nato Hezbollah, il partito di Dio che minaccia Israele. Poco lontano, ecco Sabra e Chatila e la memoria corre alla strage di donne e bambini nel 1982. Sono 12 i campi gestiti in Libano dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu creata per il palestinesi della Naqba, la catastrofe, la chiamano così in arabo: la fuga di settecentomila palestinesi dalla terra contesa con Israele dopo la guerra del ‘48, quando gli eserciti del paesi arabi attaccarono il neonato stato ebreo per cancellarlo “dal fiume al mare”, dal Giordano al Mediterraneo.

L’esistenza stessa dell’Unrwa era stata voluta dalle Nazioni Unite per sottolineare il particolare stato dei palestinesi. Non semplici rifugiati (che avrebbero avuto l’assistenza dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i profughi), ma esuli che hanno il diritto al ritorno in Palestina. I settecentomila palestinesi dispersi tra i paesi arabi o emigrati in Occidente sono diventati quasi cinque milioni. Il ritmo di crescita demografica è altissimo: in Libano sono quasi cinquecentomila. Non hanno praticamente diritto al lavoro, se non i mestieri più umili. I sindacati e gli ordini professionali (medici, avvocati, ingegneri) si oppongono. Per l’anagrafe non esistono, in un paese che dal 1932 non fa un censimento per non turbare il delicatissimo equilibrio che regola la spartizione di tutte le cariche pubbliche tra le 18 confessioni religiose del Paese dei cedri.

Ottanta morti fulminati

La crisi economica e politica ha fatto precipitare il Libano in una condizione peggiore a quella degli anni della guerra. Per i palestinesi non ci sono nemmeno le briciole. L’assistenza sanitaria, le scuole, le scarne mense dei campi dove vivono sono rifornite dall’Unrwa. Ma ora l’agenzia, che dà lavoro a 13 mila dipendenti pagati con i fondi internazionali, rischia di esser travolta dallo scandalo: 13 suoi dipendenti sono stati licenziati e sono sotto indagine con un’imputazione terribile: aver partecipato al massacro del 7 ottobre. C’erano anche loro tra i terroristi di Hamas, ed Israele accusa: da sempre l’Unrwa protegge i guerriglieri delle fazioni che si addestrano nei campi. Questa è la prova, la pistola fumante. Usa, Germania, Italia, Regno Unito, Francia, Giappone e altre 10 nazioni hanno sospeso i finanziamenti: a rischio il già debole sistema di assistenza sociale sostenuto dalla agenzia.

Entriamo nel campo profughi, un’intricata città da incubo dove migliaia di fili della corrente pendono sui vicoli: ogni casa si attacca ai fili principali. Quando piove il rischio è altissimo: ottanta persone sono morte fulminate. Giganteschi palazzi sono cresciuti di piano in piano su case senza fondamenta.

Poca merce nelle piccole botteghe e, del resto, non ci sono soldi per comprare, se non gli aiuti che arrivano da quanti sono riusciti ad andare all’estero. Giovani donne con bambini in braccio mendicano sui marciapiedi. Sui muri grandi poster di uomini armati sullo sfondo della Moschea di Al Qsa e del Duomo della Rocca, simbolo di Gerusalemme, giganteschi ritratti di Arafat, di Hanieh, il capo di Hamas, dello sceicco Yessin, fondatore della milizia, dei capi del Fronte Popolare palestinese e delle altre fazioni armate che ancora combattono Israele. Attorno al campo le bandiere di Hezbollah e i ritratti di Khomeini, Nasrallah, Suleimani, il comandante delle guardie della rivoluzione iraniana, i pasdaran, ucciso da un drone Usa mente era a Bagdad.

«Inshallah»

I responsabili dell’Unrwa sono gentili e disperati: «La scuola dove studiano migliaia di bambini potrebbe chiudere – dice la preside – per loro non ci sarebbe nessun futuro». I piccoli sono la quinta generazione nata e cresciuta tra i claustrofobici confini del gigantesco campo. Non sono mai usciti. Da lontano vedono i grattacieli della Beirut ricostruita dopo la guerra civile, vedono la superstrada dove sfrecciano auto di lusso, vedono gli arei atterrare nell’aeroporto Hariri, poco distante, intuiscono, più che vedere, il mare che accarezza le spiagge dove non possono andare. Si avverte la brezza nelle giornate di sole, il vento, quello – sì – nessuno lo può rinchiudere.

I bambini mi fanno festa: è l’ora della ricreazione. Una piccola, avrà sei o sette anni, mi offre una manciata di patatine, vuole condividere con me la sua merenda. Un bambino mi porta una bottiglia d’acqua: difficile pensare che un giorno potrebbero essere anche loro tra i guerriglieri che ci guardano orgogliosi dai ritratti sui muri del campo. Ancor più difficile immaginare che futuro potranno avere. Le maestre sono palestinesi, tra le poche donne del campo ad avere un lavoro. «Cosa accadrà? Di voi, di loro…» e indico i bambini che fanno a gara per stringermi la mano o farsi abbracciare. Si stringono nella spalle «Inshallah», lo sa Dio.

Compiti a lume di candela

La mamma di una bambina ci invita a casa sua. Più che una casa è un tugurio di tre stanze, si sale le scale pericolanti per tre piani, e la donna, Yasmine, racconta: «Mio marito sta morendo di cancro. Ricevo qualche aiuto dall’Unhcr, ma le medicine, quando possiamo, dobbiamo pagarcele noi con i soldi che ci danno alcune famiglie amiche di Beirut. Ce le porta mia sorella che vive in Siria, perché lì costano meno. Anche lei mi dà qualche soldo per tirare avanti».

Non c’è luce, la casa è buia, Jasmine aiuta la figlia a fare i compiti a lume di candela. «Se la scuola chiude non so come faremo. L’Unrwa ci ha avvisato: dovranno scegliere tra i fondi per la scuola, la sanità o le mense… Non è giusto. Se c’è chi ha commesso dei crimini perché dobbiamo pagare noi? I miei figli sono quattro… tra poco potrebbero essere orfani. Mio marito è in fin di vita. Se ne andrà disperato». La candela illumina uno sguardo carico di un pianto che non si vuole sciogliere.

Caffè senza zucchero

Vado verso la sede dei servizi di assistenza. Incontro Ahmed, 65 anni, esce dalla sede dell’agenzia dove è venuto a farsi dare le medicine per il diabete: Insiste per invitarmi a casa sua. Ci vivono in dieci. Due stanze. Nessun mobile. Materassini piegati in un angolo. Un frigorifero semivuoto, che funziona due ore al giorno, quando arriva la corrente. Un fornelletto a gas l’unico lusso. Chiede ad un vicino un po’ di caffè arabo che vuole a tutti i costi offrirmi in una tazza sbeccata. Sediamo scalzi in vecchio e consunto tappeto: è tutto quello ha. Al muro sono appese delle farfalle di carta di tanti colori, illuminate da una fioca lampadina che pende dal soffitto. Non ci sono finestre. Mi domando come viva lui e i suoi familiari quando non arriva la corrente. L’acqua la prendono da una fontana pubblica; ho un pensiero egoista, spero solo che il caffè sia bollito abbastanza.

Ahmed si scusa perché non ha zucchero. «La mia famiglia è qui dal ‘48, da prima che io nascessi. Mio nonno, mio padre, io, mio figlio, il figlio di mio figlio: siamo nati tutti nel campo. Mia moglie viene dalla Siria… Senza l’Unrwa non vedo come potremo sopravvivere». Gli chiedo: «Non pensa che c’è chi ha usato i soldi destinati a voi per combattere? Per comprare armi? Per unirsi ad Hamas?». «Se anche fosse – dice senza alterarsi – quanti sono? Cinque, dieci, cento? Noi disperati siamo centinaia di migliaia! Vogliono farci morire? Meritiamo di morire tutti?».

«Se scoppia una guerra, dove andremo?»

Penso ai ricchi capi di Hamas che vivono all’estero, a Doha, ad Istanbul, guardo i ristoranti di lusso poco lontano dove i leader libanesi ricevono gli ospiti importanti. Le vetrine piene di dolci sono poco distanti. Ne porto un cartoccio ai nipotini di Ahmed, ai figli di Jasmine, allungo quasi con vergogna qualche dollaro ad una insistente mendicante che mi urla in arabo che muore di fame… e non mi domando se è vero, non ne ho il tempo, altre donne e bambini si avvicinano. Uomini e ragazzi più grandi li cacciano con poche grida, si scusano con me in francese. «Non siamo pezzenti, hanno fame, ma abbiamo la nostra dignità. Abbiamo studiato ma non possiamo lavorare».

Le associazioni umanitarie, molte italiane, ci sono. Caritas, Pro Terra Sancta, organizzazioni caritative islamiche fanno quello che possono. Ma Jasmine e Ahmed non lo sanno; dal campo non escono. Hanno paura. Si sentono più protetti dalla milizia palestinese che per un accordo con il governo di Beirut governa il campo da sempre. Vissuti nella miseria hanno paura. Amina, una ragazza di 25 anni che ha studiato da infermiera, vorrebbe emigrare ma non ha documenti: «Se scoppia una nuova guerra, se bombardano, dove andremo?», mi dice. «La nostra sorte non la conosciamo. Temiamo che la guerra di Gaza incendi di nuovo il Libano, sia che Israele entri a Rafah sia che sia stabilità una tregua e decida di attaccare Hezbollah. Noi rifugiati saremo più indifesi».

fonte: Giancaro Giojelli | Tempi.it

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